il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2023
Israele, tutti contro Netanyahu
Tra qualche settimana o mese, Israele potrebbe trovarsi ad affrontare una crisi costituzionale storica. La Corte Suprema ha infatti iniziato a esaminare i ricorsi avanzati contro una parte importante della riforma della giustizia, approvata a luglio dal governo conservatore di Benjamin Netanyahu, che intende attribuire maggiori poteri al primo ministro israeliano, e che ha portato in piazza milioni di oppositori (un israeliano su due). I membri del governo si ritroveranno di fronte a una scelta cruciale: dovranno obbedire ad una legge respinta dalla maggior parte della popolazione oppure rispettare la volontà della Corte Suprema, nel caso in cui dovesse respingere il testo?
Netanyahu e i suoi alleati “razzisti-fascisti”, come li ha definiti di recente l’ex direttore del Mossad Tamir Pardo, non sembrano più in grado di contenere la mobilitazione popolare. I manifestanti non si limitano più a denunciare i pericoli che minacciano la “democrazia” israeliana, così come ha funzionato dalla creazione dello Stato nel 1948, ma sollevano anche dubbi sul carattere realmente democratico di uno Stato che ha occupato e colonizzato, per mezzo secolo, la terra di un altro popolo, e che ha deciso di instaurare l’apartheid. I dubbi insinuano anche le istituzioni israeliane. All’inizio di settembre, Gali Baharav-Miara, procuratrice generale di Israele, ha annunciato al primo ministro che avrebbe sostenuto i ricorsi favorevoli alla soppressione della riforma della giustizia. La legge, ha detto, “priverebbe le persone di uno strumento cruciale per difendersi dall’esercizio arbitrario del potere” e porterebbe “il colpo fatale” al “sistema democratico”. Ecco perché, ha concluso, “non c’è altra scelta che dichiarare nullo” il progetto di legge. Il ministro (Likud) della Cooperazione regionale, David Amsalem, ha definito qualche settimana fa Gali Baharav-Miara “la persona più pericolosa di Israele”. I quindici giudici della Corte Suprema si riuniscono per la prima volta nella storia di Israele dal 12 settembre scorso. Ma la situazione è paradossale: poiché la procuratrice generale è ostile alla legge, è un avvocato privato a difendere il testo del governo davanti alla Corte Suprema. Sorprendente è anche la posizione di Tamir Pardo, direttore del Mossad dal 2011 al 2016, che ad agosto, in un testo sul Yediot Aharonot, non ha nascosto la sua ostilità alla politica del primo ministro, mentre era stato proprio Netanyahu ad averlo nominato capo dei servizi segreti israeliani. Nel 2018 Pardo definì il Mossad “un’organizzazione criminale con la licenza” e si sa che, nel 2011, contestò, con l’appoggio dell’allora capo di stato maggiore Benny Gantz, la decisione di Netanyahu di attaccare l’Iran, un attacco che considerava illegale perché non aveva ottenuto il consenso del governo. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, Pardo mobilitò diverse conoscenze per convincere Netanyahu a dire al presidente degli Stati Uniti che ritirare il suo Paese dall’accordo sul nucleare iraniano era un errore. Alcuni giorni fa, inoltre, con l’appoggio dei “Comandanti per la Sicurezza di Israele” (Cis), un’organizzazione che riunisce più di 540 alti ufficiali e direttori dei servizi di sicurezza, ha pubblicato un articolo in cui afferma che “ogni giorno avvicina sempre più Israele alla fine del sogno sionista”: “I messianici e i fascisti – ha scritto – hanno legato un blocco ultraortodosso, ultranazionalista e antisionista a Netanyahu e trasformato il suo partito democratico di destra in una formazione autoritaria, razzista e ultraortodossa”.
In un’intervista all’Associated Press, ha poi detto: “La questione palestinese è una delle più urgenti per Israele, anche più del programma nucleare iraniano. Quando ero a capo del Mossad, ho ripetutamente detto a Netanyahu che doveva decidere dove fossero i limiti di Israele. Perché un Paese che non ha limiti, non ha confini. E se lo Stato degli Ebrei non ha confini, rischia la distruzione”. Le parole di Tamir Pardo riflettono l’analisi avanzata dalle circa 2.300 personalità, accademici, intellettuali, artisti, rabbini, israeliani o amici di Israele, che hanno sottoscritto la petizione inviata ai membri delle organizzazioni ebraiche degli Stati Uniti con il titolo “L’elefante nella stanza”. Gli autori del testo notano che “esiste un legame diretto tra il recente attacco di Israele al sistema giudiziario e l’occupazione illegale di milioni di palestinesi (…)privati di quasi tutti i diritti fondamentali, compresi quelli di voto e di manifestare. Esposti inoltre a una violenza costante: solo quest’anno, le forze israeliane hanno ucciso più di 190 palestinesi in Cisgiordania e Gaza e demolito più di 590 costruzioni. I coloni bruciano, saccheggiano e uccidono, nella totale impunità. Senza uguali diritti per tutti, c’è il pericolo di dittatura”. I leader della rivolta popolare non hanno esitato a organizzare, alcune settimane fa, e per la prima volta, delle manifestazioni all’interno degli stessi territori occupati. Una vicino alla casa del ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, ex delinquente, leader del partito razzista ultranazionalista Potere ebraico, nell’insediamento di Kiryat Arba, sopra Hebron. Un’altra nell’insediamento di Kedumim, vicino a Nablus, poco lontano dalla casa del ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, capo del Partito sionista religioso di estrema destra. Smotrich, che si presenta come “fascista omofobo”, ha chiesto e ottenuto da Netanyahu il titolo di “ministro al ministero della Difesa”, che gli conferisce la piena autorità sulla colonizzazione e la vita quotidiana dei palestinesi di Cisgiordania. La popolarità di Netanyahu sta crollando e il primo ministro, un “drogato di sondaggi”, come ha detto una volta un suo ex collaboratore, non può ignorarlo. Stando ad un sondaggio del quotidiano Maariv, pubblicato a fine agosto, in caso di elezioni oggi, l’attuale coalizione di destra-estrema destra-religiosi-coloni non otterrebbe la maggioranza, ma solo 54 seggi di deputati su 120 (contro i 64 attuali), mentre le opposizioni riunirebbero 57 deputati (contro 46 oggi), ai quali si potrebbero aggiungere 11 deputati arabi. Un altro sondaggio di Channel 3 indica che il 56% degli israeliani teme una “guerra interna” e che un terzo sta pensando di lasciare il Paese. Cosa che molti investitori, a quanto pare, hanno già fatto. Un rapporto del ministero delle Finanze ha rivelato che l’ammontare degli investimenti esteri è diminuito del 60% (rispetto al 2022) nel primo trimestre. E Netanyahu rischia di restare deluso se si aspetta il sostegno dell’esercito.
I militari, attivi o di riserva, che fin dall’inizio hanno fornito il loro sostegno al movimento di protesta, hanno preso molto male le critiche dell’estrema destra che li ha accusati, con parole appena velate, di essere dei privilegiati. Hanno preso male anche le voci sulla destituzione del capo di stato maggiore, Herzi Halevi, ritenuto troppo tollerante nei confronti dell’indisciplina delle sue truppe. Alcuni ufficiali, come l’ex generale Amiram Levin, ex capo del comando nord dell’esercito israeliano, rilanciano le accuse degli oppositori più radicali all’occupazione: “Non c’è mai stata democrazia in Cisgiordania da cinquantasette anni. C’è un apartheid totale. Costretto a esercitare in queste condizioni la propria sovranità, l’esercito marcisce dall’interno – sostengono –. Restando a guardare i coloni in rivolta senza fare nulla, diventa complice di crimini di guerra”. Veterano della guerra dello Yom Kippur di mezzo secolo fa, 22 anni all’epoca, Gil Regev ritiene che “l’esercito dipende dai riservisti” ma che “non si possono imporre missioni di combattimento ai civili”: “Una missione di combattimento si basa sul volontariato, su un contratto non scritto – osserva –. Ciò presuppone che i volontari non debbano obbedire a uno Stato messianico e corrotto. Se il progetto del governo andrà in porto, il Paese diventerà una dittatura. Propongo quindi che il capo di stato maggiore dell’esercito, il direttore del Mossad e il direttore del Shin Bet si rechino insieme dal primo ministro per spiegargli che il suo progetto rischia di causare la disintegrazione dell’esercito. Che gli dicano: ora basta. Ma ciò richiede molto più coraggio che andare a combattere sul campo di battaglia”.