Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  settembre 18 Lunedì calendario

Storia del Roosevelt Hotel

Una storia universale è quella del Roosevelt Hotel, la nuova Ellis Island di New York. Festeggerà un secolo di vita il 22 settembre del prossimo anno, ma non sa con quale destinazione d’uso ci arriverà. È stato lo specchio dei tempi. Residenza di lusso, set cinematografico, chiuso per pandemia, riaperto per ospitare parte della marea di immigrati che si è riversata sulla città. Le cifre impressionano: 100mila dalla primavera, accolti in 200 siti, di cui 140 alberghi. Nessuno con la storia e il rilievo di questo.
E allora avviciniamoci, scendendo lungo la 45ma strada, tra la Quinta e Park Avenue. Indirizzi importanti, palazzi per uffici, marmi e cristalli. Le torri del Roosevelt (19 piani) svettano. Le lettere dorate rifulgono sulla tettoia all’ingresso. Davanti, staziona un pullman blu elettrico, potrebbe essere un trasporto turistico, ma non lo è. Ci sono transenne, militari con la mimetica, un silenzio così poco newyorchese. I passanti, per lo più impiegati diretti al lavoro, camminano veloci sull’altro lato della strada, sguardo basso sull’asfalto. I vetri dell’albergo sono oscurati. Ogni tanto esce qualcuno: una famiglia con bambino sosta sui motorini parcheggiati; un uomo e un ragazzo con una sedia pieghevole la aprono per iniziare un taglio di capelli pochi metri più in là. Il pullman si riempie, parte. Ne arriverà un altro.
Nella hall c’è la stessa moquette elegante che accolse le troupe cinematografiche. In una di queste sale Michael Douglas nei panni di Gordon Gekko in Wall street tenne il discorso in difesa dell’avidità. Un gruppo di bambini sudamericani in cerchio si divide un pacchetto di patatine. Obama organizzò qui una raccolta fondi durante la campagna elettorale. I pasti vengono distribuiti in parte nel ristorante, in parte nel vicino Vander Bar, trasformato in bivacco. Al bar i pubblicitari della serie televisiva Mad Men sorseggiavano Martini e decidevano strategie per réclame da mostrare ai clienti nella riunione successiva. Nella sala conferenze il video girato da uno dei “residenti” e caricato su “X” mostra file di sedie. Le occupano uomini e donne che hanno varcato il confine con un fagotto di averi, perdendone per strada la maggior parte. Sono tutti disposti in modo da guardare in avanti, verso un tavolo vuoto, uno schermo che non trasmette niente. Il tempo passa, è passato.
Il Roosevelt venne inaugurato nel 1924. Battezzato con il nome del ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti, Nobel per la pace, uno dei quattro volti sul monte Rushmore, morto cinque anni prima. Quando, era il 31 ottobre del 2020, chiuse a causa della difficoltà di riempire le sue 1.015 stanze mentre infuriava il covid, il sito si congedò con una frase (ancora leggibile) da lui pronunciata. Questa: «È molto meglio osare cose straordinarie, ottenere gloriosi trionfi anche se macchiati da insuccessi piuttosto che far parte di quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori». Potrebbe essere il motto che ha messo in marcia queste migliaia di uomini, donne e bambini per lo più partiti dalla miseria del Sudamerica verso l’inesausto miraggio della terra delle opportunità. Approdati in effetti, centinaia di loro, al lusso di un hotel che non avrebbero mai potuto permettersi e per il quale la città paga 383 dollari a stanza, per notte.
Fu il primo al mondo a mettere la tv in camera, ora quelle che funzionano sono accese tutto il giorno, un fiume multilingue si riversa nei corridoi, alimentato da uno zapping furibondo che sfida la noia. Nel pianterreno ci sono sale di vaccinazione. Chi l’effettua poi sale su uno dei pullman blu e viene trasportato altrove. Chi resta, aspetta. Fino a sette anni. La legge consente l’accesso, vieta il lavoro, offre il riparo, prende tempo per decidere a favore o contro l’ammissione. Il confine viene varcato in Texas, Arizona, Florida. Da lì governatori repubblicani spingono la marea verso le città governate da sindaci democratici. I costi per la sua gestione saranno, a New York, di oltre 4 miliardi nei prossimi due anni: budget sforato, conseguenti tagli a tutti gli altri servizi. Le prossime elezioni non si giocheranno sull’età di Biden o sul procedimento contro Trump, semmai su questo tema.
Quelli che camminano sull’altro lato della strada sono spaventati. Da maggio al Roosevelt Hotel sono stati effettuati 41 arresti: per droga, prostituzione, abusi. Alcuni casi sono rientrati, altri sono usciti. Nel senso che il reato è stato trasportato sul marciapiede, nell’isolato accanto. I democratici di New York cominciano a esprimersi come, a suo tempo, quelli di Capalbio: sì, ma non qui. Eppure quattro abitanti su dieci hanno origini non americane.
Non c’è un luogo altrettanto simbolico e paradossale. La Grand Central Station è così vicina che esisteva un tunnel per raggiungerla dall’albergo. Ci sono gallerie per passare sotto il muro eretto da Trump alla frontiera (e mai terminato). C’era l’Underground Railroad per fuggire dalla schiavitù prima della sua abolizione. C’è sempre da chinarsi per sopravvivere. E intanto, a una distanza ancora più ravvicinata, i turisti fanno la coda per salire sul Summit, il nuovo e più giocoso punto di osservazione sopra New York: specchi, palloncini, sporgenze. Dai bagni puoi quasi toccare le guglie del Chrysler Building. Puoi vedere, davvero vedere, chi entra e non esce dal Roosevelt Hotel? O possiamo fare finta di non guardare, di non leggere, di non aver appreso inconfutabilmente dalle pagine di Gaia Vince che stiamo vivendo nel «secolo nomade». Nei prossimi cinquant’anni tre miliardi e mezzo di persone si sposteranno per fuggire da flagelli naturali e umani, scaveranno il loro tunnel, troveranno il loro Roosevelt hotel. Quando andrà bene. Quando andrà male giaceranno in fondo al mare, o sotto la polvere. Ci sono due situazioni che l’occhio e l’animo non registrano: il caso isolato e quello di massa, ripetuto. Un problema che continua a porsi finisce per essere considerato privo di soluzioni. A un certo punto, prima della sua “riconversione”, il Roosevelt Hotel sembrava dovesse prenderselo Donald Trump. Puoi comprare il problema, non la soluzione.
Trump compra. —