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 2023  settembre 18 Lunedì calendario

Sciopero, le richieste dei lavoratori dello spettacolo

I negoziati a Detroit fra United Auto Workers, il sindacato dei metalmeccanici, e le aziende sono ripresi ieri, «ma vanno a rilento», dice Shawn Fain, capo da meno di un anno della Uaw che avverte dagli schermi di Face The Nation sulla Cbs: «Faremo qualsiasi cosa dobbiamo fare».
Maria Barra, ceo della General Motors, si è detta «frustrata» per lo sciopero e ha ribadito che sono state avanzate diverse offerte ai sindacati senza sortire effetto. Ieri l’ultima l’ha messa sul tavolo Stellantis, inserendo accanto ad aumenti salariali attorno al 20%, anche la promessa di mantenere aperto uno stabilimento in Illinois. A dare manforte ai lavoratori anche il messaggio di Barack Obama, che ha sottolineato come «ora è il tempo delle aziende» di fare concessioni.
Lo scenario è più complesso e quanto sta accadendo a Detroit con la protesta contro i Big Three sembra andare oltre le tradizionali rivendicazioni su salari, benefit e livelli retributivi a doppie velocità. In gioco è la sfida dell’innovazione, in un contrastato passaggio – se armonioso o conflittuale è la posta in palio – fra vecchi modelli produttivi e nuovi. E di conseguenza anche delle relazioni fra sindacato e aziende. E non riguarda solo l’industria automobilistica che per decenni ha trainato il boom statunitense.
A Hollywood sceneggiatori (11.500) e attori (160mila) incrociano le braccia da ormai 5 mesi per poter condividere gli introiti che lo streaming ha moltiplicato per i produttori, ma anche per definire il loro ruolo in un mondo in trasformazione dove algoritmi e ricorso all’intelligenza artificiale rischiano di ridurre i livelli occupazionali.
Fran Drescher, capo della Sag-Aftra, attrice e la famosa “Tata” della sit com, a fine luglio spiegò chiaramente che «siamo a rischio perché ci vogliono sostituire con l’intelligenza artificiale». Il sindacato degli autotrasportatori, Teamster, ha ottenuto, dopo aver minacciato una serrata che avrebbe messo in ginocchio la logistica e le spedizioni in Nord America, aumenti e paghe da 170mila dollari l’anno (benefit compresi) per gli autisti. Tuttavia, nota uno studio della Harvard Business Review, il nuovo contratto non tocca il caso dell’automazione e nasce inadeguato. Cosa succederà infatti quando basterà un addetto dietro una consolle a gestire la flotta di furgoni che circoleranno sulle strade Usa? Non è uno scenario chissà quanto lontano. A San Francisco i sindacati hanno alzato un muro contro la decisione del Comune di aumentare il numero di taxi senza autista che si muovono in città. La stessa sfida per bilanciare salari, produttività e innovazione, l’hanno vissuta sulla propria pelle i lavoratori portuali, hanno ottenuto aumenti di stipendi nel rinnovo contrattuale del 32% e l’hero bonus, soldi per essere stati in prima fila durante la pandemia garantendo il transito di beni dagli scali portuali.
Eppure, nel nuovo contratto non c’è riferimento all’automazione e alla mutazione che grandi hub come Los Angeles e New York dovranno apportare. Attualmente, infatti, nota sempre lo studio della Harvard Business Review, su questo fronte i porti americani sono indietro rispetto ai principali europei e asiatici.
Nel 2023, cumulando ogni protesta, sinora gli Usa hanno perso 4,1 milioni di giorni di lavoro, record dal 2000, anche se il sostegno alle “union” è al 50% quando negli anni 70 superava il 75%. Oggi il 6% della forza lavoro dell’industria privata è sindacalizzata.
Lo fanno notare anche le Big Three di Detroit che si trovano a competere in un mercato in cui sia a Tesla sia le società straniere con fabbriche negli States (Toyota e Honda ad esempio) non hanno componenti sindacali. Così lì i salari sono di 40-45 dollari l’ora (compresi benefit, come assicurazione sanitaria) contro i 60 dollari a GM. L’Uaw chiede aumenti del 36%, le Big Three temono che dirottare tutti quei soldi lì renderebbe per loro impossibile la competizione nel mercato dell’elettrico dove Tesla di Elon Musk è punto di riferimento. È un equilibrio difficile, poiché la dirigenza ritiene già scritta la transizione alle EV. Questo comporta, dicono i sindacati, una diminuzione della forza lavoro e un suo impoverimento. Servono per le EV infatti più fabbriche che producono batterie e lì non ci sono sindacati. Washington non si limita a osservare le dinamiche. Biden ha inviato due negoziatori di livello e si trova stretto in una morsa: da una parte difende il suo “green deal” e la transizione all’elettrico, ma dall’altra non può certo non prestare attenzione alle rivendicazioni dell’Uaw. Che, guarda caso, è l’unico sindacato che ancora non gli ha garantito il sostegno per il 2024.