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 2023  settembre 18 Lunedì calendario

Intervista ad Alessandro Aiuti

I bambini sono cresciuti. Le loro foto sono appese alle pareti: dall’arrivo in fasce a Milano, al San Raffaele, per ricevere la sola terapia che poteva salvargli la vita, fino a oggi. C’è Joe adolescente che corre la maratona in Gran Bretagna, Rafael che studia ingegneria elettronica in Venezuela e Jacob, che dopo aver trovato la sua America in Italia è tornato negli Usa, dove suona la batteria e salta con lo snowboard. Con loro cresce anche il muro pieno di volti al San Raffaele: tre pareti con 130 bambini. «Al momento del ricovero mettiamo subito le cose in chiaro» sorride Alessandro Aiuti. «Noi li trattiamo, ma vogliamo continuare a ricevere le foto anche da grandi. L’ultima è di stamattina: il primo giorno di scuola di un bambino sottoposto a terapia genica cinque anni fa. Oggi sta bene». Aiuti, 57 anni, è il medico alto con gli occhi chiari e la voce calma da papà che fin dalla fondazione, nel 1996, lavora all’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica. Oggi ne è il vicedirettore e quei visi sul muro li conosce tutti, insieme alle malattie genetiche rare che li accompagnavano e che oggi non ci sono più: Ada-Scid (la sindrome dei bambini bolla, chiusi in un perenne lockdown per la mancanza di un sistema immunitario funzionante) o leucodistrofia metacromatica (grave difetto del sistema nervoso), solo per citarne un paio. «Questi ragazzi sono una seconda famiglia per noi e noi siamo una seconda famiglia per loro», dice Aiuti. Il loro legame ha molto a che fare col sangue, visto che unisce i bambini curati, Alessandro Aiuti e il suo papà, l’immunologo Fernando Aiuti che negli anni ’80 affrontò i primi casi di Aids. È una linea rossa tracciata da un virus letale e salvifico insieme: l’Hiv. È raccontata nel libro scritto con Annamaria Zaccheddu La cura inaspettata. L’Hiv da peste del secolo a farmaco di precisione.
Che c’entra l’Hiv?
«È il virus che causa l’Aids, ma è anche uno dei virus che sfruttiamo per la terapia genica. Ovviamente non lo usiamo così com’è. Lo smontiamo e rimontiamo, togliendo le componenti che gli permettono di replicarsi e inserendovi una copia del gene corretto che sostituirà quello danneggiato dalla malattia. L’Hiv è un virus maneggevole, efficiente nel penetrare nelle cellule staminali del sangue e inserirvi i geni corretti»
L’Hiv ha guarito dei bambini?
«Guarito è una parola che noi medici usiamo con prudenza, ma a parecchi anni di distanza i geni corretti continuano a funzionare e i ragazzi stanno bene. Salsabil, una bambina palestinese con l’Ada Scid, è stata la prima a ricevere il trattamento nel 2000. Era troppo grave per viaggiare, andammo a Gerusalemme per trattarla. Ora ha 23 anni e sta bene».
L’Hiv è il suo strumento di lavoro, ma è stato anche una presenza ingombrante della sua adolescenza.
«Forse abbiamo dimenticato la tragedia che fu l’Aids. I primi casi arrivarono a Roma nel 1980, anche se vennero riconosciuti più tardi. La mia famiglia ne fu subito travolta. Mio padre, che insegnava alla Sapienza, portava a casa il peso e la frustrazione di un medico che vede morire i suoi pazienti senza sapere cosa fare. Ogni tanto a dir la verità a casa portava anche le provette di sangue infetto che usava per fare ricerca. Le metteva in un angolo del frigo, con la scritta grande: non toccare».
Suo padre non era solo un medico, era anche un attivista e il
fondatore dell’Anlaids.
«Scherzava sul nostro cognome: Aiuti è la traduzione di Aids. Mia mamma e noi tre figli lo aiutavamo a distribuire volantini e preservativi per le campagne di Anlaids. All’inizio le istituzioni furono lente nell’attivarsi, forse per non creare allarmismi, e in alcuni casi fecero ostruzionismo: all’epoca il sesso era un tabù, omossessuali e tossicodipendenti emarginati. A volte i miei amici che avevano avuto un rapporto venivano da me a chiedere consiglio: ora devo fare il test?
Neanche allora mancavano i negazionisti, secondo cui la malattia era inventata. Papà ricevette diverse minacce. Ricordo anche che spesso si consultava in famiglia prima dei suoi interventi pubblici».
Anche nel 1991, quando baciò Rosaria Iardino, ragazza sieropositiva, per dimostrare che l’Hiv non si trasmette così?
«No, quella volta proprio no. Fummosorpresi. Mia mamma, dopo la perplessità iniziale, capì che voleva lanciare un messaggio contro la discriminazione e lo accettò».
Come commentava suo padre i suoi successi: l’Hiv diventato cura?
«Era incuriosito, mi faceva domande. Tramite terze persone ho saputo che era orgoglioso. A me però non lo ha mai detto. Da ragazzo avevo sofferto molto la sua presenza ingombrante.
Ho studiato alla Sapienza, dove non mancavano i casi di nepotismo, e mi scocciava passare per il solito figlio del professore. Tenevo un basso profilo, aiutato dalla riservatezza che ho ereditato da mia madre. Quando dopo la laurea sono andato a lavorare a Boston con Laura, mia moglie, mi sono sentito finalmente libero».
Oggi c’è ancora spazio da riempire sulle vostre pareti?
«Molto. La terapia genica però è costosa. Siamo riusciti a metterla a punto dal punto di vista scientifico, ma la sostenibilità economica sta creando problemi. Diverse aziende farmaceutiche si sono tirate indietro per mancanza di profitto. Telethon ha appena deciso di produrre in proprio la terapia per l’Ada Scid per non abbandonare i pazienti».
I ragazzi curati tornano a Milano?
«Ogni anno per i controlli insieme alla famiglia. Rivederci è sempre una festa. Sul muro aggiungiamo nuove foto per le gare sportive, la patente, i successi a scuola, per quel bambino che non poteva uscire di casa per il timore di infettarsi e ora è tutto sporco di terra. Fra gli ultimi c’è un ragazzo ucraino che pochi giorni dopo lo scoppio della guerra ha avuto la diagnosi di leucodistrofia metacromatica».
Studieranno magari medicina?
«A me piace far affacciare i ragazzi in laboratorio. C’è chi si è emozionato guardando al microscopio le proprie cellule del sangue guarite. Mi chiedo se qualcuno di loro un giorno prenderà il mio posto, allungando quella linea rossa che oggi ci ha portato fin qui».