La Stampa, 17 settembre 2023
Gli africani sfidano l’Occidente
Noi europei guardiamo l’Africa dall’alto in basso. Se la guardiamo. Non solo perché il canone cartografico disegna l’Africa sotto l’Europa. È che ci pretendiamo superiori agli africani in ogni senso. Verità che non merita spiegazione. Postulato che può al meglio volgere in esotismo – hic sunt leones – al peggio in sfruttamento bestiale di popoli e risorse, quasi gli africani fossero cose a disposizione. Complesso di superiorità strutturato attorno all’essenzialismo più sfrenato: noi siamo nella Storia, voi non ci siete mai entrati; noi benestanti evoluti voi poveri arretrati; noi nazioni voi tribù. Insomma: noi bianchi voi neri. Razzismo istintivo, talmente immediato e spontaneo che stentiamo a percepirlo tale. Inasprito dal politicamente corretto che vorrebbe mascherarlo mentre perpetua il sentimento da velare.
Niente da fare: «Il Nero non è un uomo, il Nero è un uomo nero». Così Frantz Fanon, genio martinicano, settant’anni fa si lacerava sulla nevrosi della persona di colore davanti allo sguardo bianco del colono che lo rendeva prigioniero. Sicché aspirava alla “lattificazione”. Avrebbe voluto sbiancarsi, coprire pelle nera con maschera bianca. Fanon aspirava a liberare l’uomo nero da sé stesso. Essere riconosciuto dall’uomo bianco e così riconoscerlo. Dialettica della condizione umana: il razzismo cancella la persona, che il colono riduce al valore d’uso che può estrarne.
Oggi i coloni non ci sono più, o almeno non si ostentano tali. Eppure la mentalità coloniale resiste, come la discriminazione per razza. Anche fra africani bianchi e africani neri. Nel Maghreb arabo i primi usano definirsi ahrar (uomini liberi) mentre applicano ai neri il peggiorativo abid (schiavi). E spesso li trattano di conseguenza, non ricambiati, nella piena coscienza dei governi europei che remunerano i “pelle chiara” perché impediscano con ogni mezzo ai subsahariani di imbarcarsi verso l’Italia. Gheddafi e Ben Ali ne avevano fatto un triste commercio, alcuni loro epigoni una mattanza trasferita dalle coste mediterranee alla linea della palma. Vera frontiera tra Africa ed Europa.
Su questo sfondo, i rapporti fra africani e occidentali stanno peggiorando al galoppo. Specie fra ex colonie francesi e Parigi. Negli ultimi tre anni l’ex impero africano della Francia è stato colpito da un’epidemia golpista. Della Françafrique, sistema postcoloniale di influenza francese nel Continente Nero, resta l’ombra. Sono cambiati uno dopo l’altro sette regimi fra Ciad, Mali, Guinea, Burkina Faso (colpo doppio), Niger e Gabon. Tutti nell’Africa ex francese. Il primo coperto e pilotato da Parigi, gli altri contro. Con prevalenza di dittature militari “transitorie”. Gli ultimi due, specie il nigerino, hanno suscitato un’eco internazionale senza precedenti. Eventi che un tempo sarebbero stati registrati nelle pagine interne o nei servizi di coda dei media “globali” – a eccezione dei francofoni (empire oblige) – stanno concentrando un fascio di luce non troppo effimera su entità di cui la maggioranza degli occidentali ignorava l’esistenza. In Francia, poi, è emergenza nazionale. “Viviamo in un mondo di pazzi”, ha sovranamente stabilito Macron davanti ai suoi ambasciatori.
Che cosa è cambiato? Il contesto, anzitutto. Insomma il mondo (non Macron). La crisi strutturale dell’impero americano eccita i protagonismi dei massimi avversari, Cina e Russia, le inquietudini degli ambigui occidentali di periferia quali noi italiani e altri europei appariamo alla torre di controllo di Washington, le aspirazioni di potenze medie e piccole, rivalutate dall’autunno della massima. Dopo secoli di emarginazione, gli africani scoprono il gusto del protagonismo.
L’Italia non ha alcun interesse all’umiliazione della Francia. Siamo semplicemente troppo legati da prossimità, dossier incrociati e memorie comuni per immaginare che la disgrazia dell’uno non sia, entro variabile misura, anche la propria. L’incontrollabile francofobia delle nostre élite è poco intelligente e molto autolesionista. Specie in questo frangente, quando abbiamo bisogno del supporto francese contro il ritorno all’austerità germanica nell’Eurozona, grave per Parigi, disastrosa per Roma.
Invece di massacrarci sulla questione migratoria, su cui coltiviamo interessi opposti – da gestire perché non tralignino in guerrigliette di frontiera attorno a Ventimiglia – possiamo ad esempio renderci utili sul fronte militare. Parigi deve ridurre drasticamente le basi africane, se non vuole esserne cacciata. Servirà un piano di disimpegno graduale ma non troppo, già oggetto di negoziati informali con la giunta nigerina. L’Italia potrebbe contribuire a “europeizzare” (si fa per dire) lo schieramento francese in alcuni paesi africani insieme a tedeschi, spagnoli e altri soci Nato/Ue. Però sul serio, non come finora accade, per cui ciascuno si trincera nella sua monade per non far quasi nulla (noi) o troppo (i francesi, che nemmeno ci avvertono del golpe nigerino di cui sapevano quasi tutto prima salvo poi cercare di arruolarci nel loro fantastico controgolpe). Purché nel contesto di un approccio collaborativo con i governi africani – quelli effettivi, “legittimi” o meno – sui principali dossier economici, a cominciare dalla remissione del debito. Attento a umori e necessità delle comunità locali, esistenzialmente interessate alla sicurezza dei propri territori. Chissà che un giorno i caporioni del neo-antimperialismo africano non ci scoprano più affidabili dei russi.
Se invece la Francia punterà i piedi, o vorrà cavarsela con qualche evacuazione simbolica, dal Sahel sarà espulsa. Sconfitta sul campo. Ingloriosa catabasi dagli effetti strategici forse paragonabili alla ritirata di Russia. Con Putin trionfante nel Continente Nero come Alessandro I a Parigi. Solo che questo “zar”, meno mistico di quello vero, non ama la Francia. E ciò che prende non lo molla. Specie se glielo regaliamo. —