La Stampa, 17 settembre 2023
Selfie con il Male
Si può stare in posa sulla guerra e sorriderci dentro, forse lo sapevamo già, è successo più volte in scatti arrivati da ogni conflitto, ma ora che la scena è il simbolo di ogni strage l’esperienza è completa, globale. Guernica diventa, ancora, altro da sé. Ennesima metamorfosi per una tela gigante realizzata nel 1937 da Pablo Picasso e diventata metronomo della sensibilità collettiva.
Per 40 anni è stato vietato fotografarla, ora c’è gente in sosta per i selfie e non importa che dietro ci sia la morte più brutale, un massacro di innocenti: è un’epoca e incrociarla va ricordato, è un quadro che trascende il soggetto rappresentato, un pezzo di assoluto e pazienza se è il male assoluto, gronda comunque storia e il museo Reina Sofia di Madrid ha deciso di metterla a disposizione di tutti. Del resto, pezzi di Guernica stavano già da anni sugli ombrelli e sopra le tazze, brandelli di persone su borse di tela e se non c’era scandalo nel venderle a 19 euro e 90 non ci può essere sdegno nella concessione di uno sfondo. Nella condivisione della memoria.
Ha deciso il nuovo direttore del museo, Manuel Segade, in carica da giugno e determinato a rimuovere un divieto che ha definito «anacronistico». Motivo citato: per cercare di eludere la sorveglianza, il pubblico staziona nella stanza per troppo tempo, il personale è stressato, la corda nera messa a protezione, per evitare la familiarità da autoscatto, mette distanza da un’opera che racconta una tragedia e si dichiara immersiva, travolgente. Motivo recondito: il Reina Sofia è uno dei posti meno abitati da Instagram perché il suo capolavoro più celebre sfugge. Ora ci saranno le code per l’espressione perfetta da metter su in modo da star bene dentro Guernica, come se ne esistesse una. Il lutto retroattivo pare troppo, lo strazio per il male del mondo richiede un corso di recitazione, il sorriso folgorante della contemporaneità bisogna saperlo portare, però è una preoccupazione di chi vuole catturare l’immagine ideale, non del museo che libera il potere del souvenir e si inserisce nell’"iperturismo": neologismo da Treccani che indica lo struscio di migliaia in un singolo punto prescelto, l’occupazione del bello universalmente ritenuto tale. Porta dritto all’iperpresenza, il bisogno di stare nel posto che non si può perdere e di portarsene a casa un pezzo.
Guernica è fotografabile da due settimane e ancora i visitatori non ci hanno preso le misure, non la assediano come le gite scolastiche con la Gioconda, non la imitano come gli innamorati di fronte al bacio di Klimt che per altro gioca con i suoi ospiti e indica nella sala del Belvedere di Vienna il punto migliore per immortalarsi a labbra incrociate. Non siamo alla parodia che è ormai pratica abituale con l’urlo di Munch e ovviamente manca tutta la luce che circonda La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, il lavoro tanto replicato da scatenare il tutto esaurito prima ancora dell’apertura della mostra monografica organizzata dal Rijksmuseum di Amsterdam. Guernica fa parte di questa speciale dinastia che sfugge alle date e persino agli autori, patrimoni dell’umanità che viaggiano per il mondo, raccontano di un Paese, di un’era, un desiderio o una paura, riassumono angosce e passioni. Guernica è in bianco e nero perché lo strazio non sopporta il colore ed è una creazione complessa, per lo stesso autore è stata specchio ed enigma e infatti a lungo non ha trovato fissa dimora. Dipinta in base a delle fotografie pubblicate sui giornali francesi, Picasso viveva a Parigi nel 1937 e l’opera è stata commissionata dalla Spagna per l’Expo di quello stesso anno. All’inaugurazione nessuno si è scandalizzato per la violenza o stranito per la simbologia. Era un Picasso e tanto bastava. Poi il quadro è andato in tournée e i chilometri percorsi, i tanti sguardi diversi incrociati hanno moltiplicato le domande, stuzzicato le reazioni.
Guernica, nel tempo, si è trasformata in una testimonianza difficile da interpretare, un messaggio politico non così ovvio da svelare. Picasso ci ha inserito il minotauro, l’arlecchino, in mezzo ad arti e teste: pezzi di arte e di vita entrambe disarticolate dalla violenza. Il quadro ha impiegato decenni per tornare in patria, accolto dal Moma di New York in un prestito perpetuo mirato ad aspettare la caduta del franchismo. Ci è voluta un’eternità. Nel 1981, morto Franco (e pure Picasso) Guernica trova casa, avvolta nella sacralità, spiegata da materiale didattico che tutt’ora la accompagna: troppo imponente per essere assorbita senza istruzioni e bandita dalla condivisione spicciola. Nelle ultime stagioni servivano turni di controllo continuo e personale addestrato a urlare e minacciare per togliere ai presenti la tentazione di un clic. Poi è arrivato Mick Jagger, con la visione privata, l’inquadratura privilegiata, le foto postate e il dibattito innescato. Allora non si tratta di rispetto, ma di classismo: il personaggio famoso può fotografarsi spalle a Guernica e gli altri no. Il nuovo direttore ha raccolto l’istanza: «Qualsiasi esperienza oggi si testa con la sua riproducibilità e Guernica non può fare differenza. Deve reggere». Senza scomodare Walter Benjamin e le pulsioni del secolo scorso, basta guardare l’austera sala 205 trasformata dalla recente concessione.
Restano proibiti i cavalletti, i bastoncini per allungare il telefono e le permanenze eccessive. Guernica è sempre un’osservata speciale, da quando, nel 1974, dal parcheggio di lusso al Moma, si è lasciata sfregiare con la vernice rossa a spray: «Kill Lies All». Il vandalo si chiama Tony Shafrazi, noto gallerista che unisce la protesta per la guerra in Vietnam a quella per un’arte radicale in contrasto con la produzione di Picasso. Guernica se ne lava la tela, non reca tracce né dell’attacco né delle sue intenzioni e allo stesso modo ignorerà i selfie, privi di flash, per entrare negli album personali degli iperturisti erranti dei Duemilaeventi. Anni dove lasciare una traccia è l’unico modo per essere presenti.