La Stampa, 17 settembre 2023
Dio patria e Trump
Donald Trump compare nella Regency Ballroom dell’Omni Shoreham Hotel di Washington quando sono da poco passate le 21,40. Almeno un migliaio di persone lo attende. Spuntano striscioni, entrati nonostante i divieti della sicurezza. Il popolo conservatore del Family Research Council schizza in piedi e immortala con gli smartphone ogni attimo dell’apparizione dell’uomo che per i presenti in sala è colui che porta sulle sue spalle il fardello della difesa dei valori cristiani contro l’avanzata della cultura progressista che qui è vista come l’emblema del declino della Nazione.
Chiunque voglia conquistare la nomination del Gop, non può schivare l’abbraccio della base cristiana, quella che ai tempi di Reagan era liquidata come «la destra cristiana evangelica», che si modula lungo chiese, associazioni e che attorno a Tony Perkins, veterano di Washington e animatore del Frc da decenni, muove voti, soldi, business in nome di slogan non urlati ma impliciti: Dio, patriottismo, famiglia, l’essenza di un movimento conservatore che oggi teme l’invasione della cultura woke, degli immigrati, e la rinuncia dell’America a essere quel che la Costituzione le prescrive di essere, faro e modello di libertà. La sottolineatura la fa Oz Guiness scrittore e storico che ricorda come l’unica fra le quattro grandi rivoluzioni (cita la francese, quella russa e la ribellione di Mao) a non essere stata anticristiana è stata quella americana. E così si spiega perché il mondo è diviso in due, sulla fede, sul diritto di professare la propria religione. È il laicismo, l’azzeramento della storia che terrorizza platea e protagonisti.
Venerdì politici e candidati sono sfilati puntuali e preparati davanti al giudizio dei devoti fra citazioni dal Libro Sacro, commenti sulla sacralità della vita, elogio della fine della Roe contro Wade, difesa dei valori cristiani e dei confini americani. Mike Pence, Ron DeSantis, Vivek Ramaswamy e infine Donald Trump sono arrivati a Washington a consegnare la loro idea.
Per entrare nella Regency Ballroom si passa attraverso una moltitudine di stand, l’Ambassador Room è piena di tavoli che promuovono iniziative caritatevoli contro il traffico dei minori, per la promozione dell’educazione, piccole aziende, università di orientamento cristiano; è una grande fiera, un’esibizione di valori condita da momenti di musica e preghiera. E di politica. E non a caso ad aprire i lavori sono stati tre deputati del Freedom Caucus, l’ala dura del Partito repubblicano, inebriati dalla prospettiva dell’impeachment a Biden. Il ritratto famigliare ruota attorno a Josh Hawley e la moglie Erin, lui è il senatore del Missouri, lei attivista e giurista pro-family, lui incassa applausi quando racconta che «mai avrebbe votato un giudice della Corte suprema apertamente anti-abortista». È una battaglia culturale quella che va in scena sul palco sotto un grande cartello slogan, «PrayVoteStand». Il mirino è sul 2024, pregare per vincere, votare per vincere, mobilitarsi per vincere. E scacciare così Joe Biden e «la sua visione progressista» dell’America fuori dalla Casa Bianca.
Mike Pence riempie la sala, Ron DeSantis infiamma la platea quando dice «che l’uomo è uomo, la donna è donna» e che «in Florida noi non facciamo le Olimpiadi dei pronomi», nelle scuole si insegna matematica non il gender-fluid. Per Vivek Ramaswamy, 38 anni, «a forza di parlare di diversità non sappiamo più cosa siamo». A margine rispondendo a La Stampa dice che «l’esercito deve essere schierato non fuori dagli States, ma al confine Sud per fermare l’America». Cita Meloni e Orban, la loro linea è giusta anche «se noi non possiamo copiarla».
Il boato che alle 21,43 accoglie Donald spiega perché i sondaggi in vista delle primarie danno l’ex presidente così avanti, sino a 50 punti in alcuni rilevamenti. Donald arriva con la notizia che il procuratore Smith ha chiesto al giudice che limiti le esternazioni dell’ex leader, ma travolge ogni barriera. Putin? Con me non ci sarebbe stata la guerra. E lo ringrazia per l’appoggio. L’aborto? Grazie alle nomine dei giudici che ha fatto. E poi la giustizia politicizzata, le elezioni rubate, l’America che con lui era una potenza e ora è in declino fra criminalità in ascesa, inflazione, credibilità. Il solito campionario. Ma il palco è quello di uno show, il pubblico sin adorante e Donald infilza Biden maramaldeggiando sull’età, «chissà se ce la fa» e ricorda qualche gaffe. Da cui nemmeno lui è esente: «Abbiamo vinto contro Obama un’elezione che tutti pensavano non avrei vinto». Infatti, quell’elezione mai c’è stata