il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2023
I dittatori a tavola/ 2
Uno spuntino dopo un genocidio, l’ultima cena sull’orlo del conflitto nucleare, un antipasto per una strage. Per scrivere Come sfamare un dittatore, appena edito da Keller, ha stretto le mani degli chef che hanno nutrito i più grandi autocrati del mondo il polacco Witold Szablowski, peso massimo della letteratura di reportage, che sembra aver raccolto il testimone dal celebre connazionale Kapusinski. Tra i fornelli non c’è politica, ma potere: “L’ho imparato cucinando per i presidenti” racconta Otonde Odera, il cuoco di Idi Amin, il ciclopico dittatore ugandese che gettava gli oppositori in pasto ai coccodrilli. Sottovaluto prima gli inglesi e poi dal premier Obote a cui scippa il governo del Paese, Amin, con quell’aria da “gioviale citrullo” che verrà poi tacciato di cannibalismo e massacri delle tribù nemiche, assedia Kampala. Quella sera lo chef pensa tra sé: dopo il golpe “arriveranno i generali con le pance vuote e se avrai qualcosa di buono da mangiare c’è la chance che non ti uccidano”. Si dimostra una ragionevole profezia quella del cuoco che preparerà per anni ad Amin (o come si battezzerà, “signore di tutte le bestie della terra” e “ultimo re di Scozia”) il suo irripetibile pilaf di capretto tra le urla dei torturati.
“Nessun presidente chiede al suo chef il permesso di cominciare una guerra”. Abu Ali è l’unico ancora vivo dei sei cuochi dell’ufficiale che scala i ranghi dell’esercito come responsabile delle purghe, fino a diventare capo assoluto d’Iraq: Saddam Hussein. Il torturatore che conficcava bottiglie di vetro negli ani degli oppositori che poi prendeva a calci, amava la zuppa di pesce “alla ladrona”, quella che preparavano nella sua natale Tikrit, città di contrabbandieri. Divora biografie di Stalin e masgouf, carpa alla griglia, ma ama pure cucinare per i soldati al fronte. Chi direbbe a uno che ha fatto fuori ebrei, curdi, sciiti e tutti i nemici del partito Baath che non ti piace la sua grigliata di kofta? “Spesso i suoi ospiti mangiavano solo per gentilezza” racconta Abu, che un giorno è costretto a fare lo stesso. Con le budella a fuoco, pensa di essere stato avvelenato, finché non vede Saddam “sbellicarsi dalle risate”: aveva intossicato il personale, per ludibrio privato, con torrenti di tabasco.
Tra il filo interdentale e quello spinato sta il signor K., cuoco del re dei paranoici, l’ex premier di Tirana Enver Hoxha. Ancora oggi K. ha paura di rivelare la propria identità: eredità di anni in cui è stato pedinato dalla polizia segreta dell’autocrate albanese, malato di diabete e quasi sempre affamato. Tra semi di finocchio depurativi e brodo di montone, compagno Enver costruì una rete di lager per 200 mila cittadini, ma “prova a chiederti quali decisioni prenderesti se avessi la pancia sempre vuota”. In certe giornate, racconta K., Hoxha aveva bisogno di Sheqerpare, il suo dolce preferito: “Sarebbe stato meglio per tutto il Paese se si fosse mangiato un bel dessert. Chissà quante vite ho salvato in questo modo”.
Il comandante Fidel Castro, anche quando sarà capo assoluto di Cuba, preparerà gli spaghetti nel cuore della notte come quando era un guerrigliero clandestino della Sierra Maestra, raccontano i suoi cuochi Erasmo e Flores. Le ex guardie del corpo dell’uomo che credeva di “sapere sempre tutto meglio degli altri” iniziano preparando negli accampamenti brodi per rivoluzionari: riso e fagioli. Quando el Comandante conquista l’Havana, diventano chef del suo amato pesce in salsa di mango. Fidel dispensa sermoni su come costruire il comunismo, ma pure su come cucinare le aragoste o inseminare le vacche. In particolare è ossessionato da una, la Ubre bianca, la mucca con mammelle da produzioni record di latte. Costringerà ogni membro del governo ad ammirarla fino a che, il rivoluzionario adoratore di latticini, ucciderà la mucca con le sue mani.
Come a Cuba, anche in Cambogia certi chef scelgono la via delle cucine da campo come un guerrigliero la lotta armata. Tra carne di elefante e germogli di bambù, lo fa Zia Moeun, la donna che riempiva lo stomaco di Pol Pot. Mentre gli americani di Nixon sganciavano sul Paese 100 mila tonnellate di bombe (la chiamarono “Operazione Menù” e non è uno scherzo) si mangiavano cavallette, locuste, larve di mosche e “il ratto arrostito, una prelibatezza”. Il capo sterminatore degli khmer rossi prediligeva genocidi ed insalate di papaia. Mentre ammassava torrette umane da due milioni di cadaveri, Moeun non credeva di servire “uno dei più grandi criminali del 20esimo secolo”, ma “un sognatore: sognava un mondo giusto dove nessuno patisse la fame”.
Le ricette, come i ricordi, sono personali e ti devi fidare dei cuochi, quando cucinano come quando raccontano, scrive Szablowski. Niente ha un legame con la guerra più potente del cibo: quasi sempre, ogni rivoluzione comincia quando non ce n’è abbastanza per tutti e stomaci vuoti imbracciano un fucile.