il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2023
Intervista a Chiara Rapaccini
Chiara Rapaccini, neanche ventenne, in un mondo spesso ancora filtrato dal bianco e nero, si è immersa in una quotidianità, parole sue, di “pazzi straordinari”. I pazzi erano la Nazionale della cultura, da Laura Betti a Marcello Mastroianni; da Alberto Moravia a Marco Ferreri; da Piero De Bernardi a Leo Benvenuti e Suso Cecchi D’Amico. E soprattutto Mario Monicelli: “Ci siamo conosciuti a Firenze sul set di Amici miei. Aveva 40 anni più di me. La prima volta che siamo usciti a cena gli ho chiesto se mi amava…”.
Sono rimasti insieme trenta e passa anni.
E questi trenta e passa anni sono finiti in un libro straordinario, Mio amato Belzebù; straordinario per racconti, ricordi, dietro le quinte, riflessioni, evoluzione personale, capacità di guardare il mondo da un oblò privilegiato senza la boria del privilegio, ma lo stupore della giovane provinciale. “Ero terrorizzata, questa la verità; oggi mi sembra passato un secolo da quando morivo dalla vergogna nei salotti della Wertmüller o dei Rosi”.
È un ultimo scorcio di commedia all’italiana all’altezza dei maestri.
Ripensando a lei giovanissima, con quale occhi si è guardata?
Tutti si aspettavano un libro su Monicelli e il cinema, e non è così; ho aspettato anni perché avevo bisogno di distanziarmi da questa incredibile avventura; mi descrivo come una ragazzina sicuramente innamorata, ma totalmente impaurita.
Racconta che conosceva a memoria le tovaglie dei tavolini dei ristoranti.
Per quattro anni ho quasi sempre guardato in basso; (pausa) oltre alla giovane età venivo pure da una città piccola.
Firenze è comunque una città.
Oggi la distanza da Roma non si sente quasi più, ma al tempo era un altro mondo e all’improvviso ero entrata in una realtà enorme, in mezzo alla più alta espressione della cultura italiana e forse europea: tutti anziani e intelligentissimi; (sorride) non frequentavo coetanei, l’unico era Andrea Purgatori.
Uomini con una preparazione smisurata.
In ogni campo, non solo sul cinema, e penso ad Antonello Trombadori, Alberto Moravia, Virgilio Tosi, i grandi sceneggiatori. Intellettuali premiati, riconosciuti, a volte venerati, sicuramente potenti e molto aggressivi.
Intellettuali e aggressivi…
Si mandavano a quel paese, sbattevano le porte.
Racconta di una cena a casa di Laura Betti.
Era normale aggredirsi, urlare “fascista!” o “cornuto!”. Io non ero abituata. Restavo zitta in attesa che questi matti si calmassero; (sorride) quella sera a casa della Betti si sono scannati su una questione: “L’avverbio ‘onde’ regge l’infinito o il congiuntivo?”; nel frattempo la stessa Betti mi domandava: “Che ci fai co’ ‘sto stronzo? Mollalo e vai a scopare con uno giovane”. Anni dopo ho capito…
Cosa?
Le loro motivazioni: a quell’epoca le idee venivano spiattellate, rivendicate e a qualunque costo. Oggi siamo tutti politicamente corretti, nessuno osa più nulla, nessuno ha più il coraggio. Si arriva a censurare pure le fiabe per bambini; (pausa) in quegli anni si diceva e si faceva…
Per coraggio, intraprendenza o follia, chi l’affascinava maggiormente?
Firenze era tutta bellezza, tutto Rinascimento, Botticelli e via così; quando guardavo il telegiornale chiedevo a mio padre perché si parlasse solo di fatti avvenuti a Roma e lui: “Da noi non succede nulla”. “E allora voglio vivere là”.
Quindi…
Con il set di Amici miei in qualche modo Roma venne a Firenze: per tre mesi la mia città bella e sonnacchiosa fu avvolta dal cinema, con tutti i fiorentini coinvolti, pure i miei genitori si tramutarono in comparse; ricordo il discorso finale di Monicelli alla città, accanto al sindaco e davanti a una folla in silenzio, come fosse il papa: “Grazie, torniamo a Roma”.
Lacrime e disperazione.
Esattamente come i barbari, ripartirono con un bottino in dote: non solo io mi ero innamorata, ma tante altre ragazze erano state sedotte dai cinematografari.
Amici miei lo definisce “mortuario”…
Mario lo ripeteva sempre: “Ridete dalla supercazzola, ma è un film sulla morte, eppure nessuno mi capisce”; infatti racconta di un gruppo di anziani alle prese con azioni infantili pur di sopravvivere; quello è stato un set goliardico.
Quanto goliardico…
Tanto, si divertivano come matti e soprattutto stavano sempre a mangiare; per la celebre scena degli schiaffi alla stazione una delle comparse all’improvviso si mosse leggermente per evitare il ceffone pieno. Mario se ne accorse. Iniziò a urlare: “Chi è quel cretino, portatemelo!”. Lì capii bene chi è il regista…
Dio in terra.
Dal caos si passò al silenzio, fino al terrore: vidi quest’uomo enorme scortato da altri due al cospetto di Mario. Mario lo fece a pezzi e lui con la testa bassa.
È una degli ultimi testimoni…
Sono rimasta io e alcuni “figli di”, ma c’è una grossa differenza con Alessandro Gassmann o Gianmarco Tognazzi: loro a un certo punto andavano a dormire, io non potevo, avevo il ruolo di moglie.
Ha visto cose…
(Ride) Un’estate eravamo a Castiglioncello e a fine serata Paolo Panelli e Marcello Mastroianni decidono di esibirsi in una perla del repertorio privato: Paolo nel ruolo di frequentatore di gabinetti delle Terme di Montecatini e Marcello dietro le sue spalle in quello di doppiatore; a quel punto Mario mi avverte: “Zib (il suo nomignolo, ndr), guarda con attenzione: mai più nella tua vita assisterai a uno spettacolo così becero e allo stesso tempo così raffinato”.
Risultato?
Una serie incredibile di pernacchie modulate a seconda delle esigenze sceniche; aveva ragione Mario, mentre Suso Cecchi D’Amico se n’era andata sdegnata.
Nel libro descrive Mastroianni come un “non seduttore…”
Era un uomo mite, diverso da quel che si credeva, sorpreso dai tanti ruoli da latin lover, le donne spesso si stufavano di lui: un casalingo dedito al cibo; amava il personaggio da omosessuale del Bell’Antonio, anche se non lo era.
Monicelli cosa ha visto in lei?
Ancora non lo so, e poi Mario aveva conosciuto e frequentato le donne più belle del mondo, aveva scoperto Claudia Cardinale; forse quando ci siamo conosciuti viveva un momento di gloria e trovare una ragazzina come me, riottosa, forse indifferente a certe liturgie cinematografiche, come lui provocatrice – e la provocazione è erotica –, lo deve aver colpito.
Accanto a un uomo di potere è stata una donna di potere.
Macché, giusto sul set mi sentivo importantissima, ma solo perché nel cinema esistono dinamiche assurde: lì il primo assistente alla regia è la legge, il terzo assistente è una merda. Il regista, come le ho detto, è una divinità assoluta.
Però ha contribuito alla scoperta di Nanni Moretti.
Lavoravo come segretaria alla cooperativa “15 maggio” e dentro c’erano tutti i grandi registi del tempo; Nanni passava di lì, sempre, per cercare contatti ma veniva sistematicamente respinto; alla fine, per vendicarmi di questi vecchi, gli passai tutti gli indirizzi e i telefoni, compreso quello di Mario; (sorride) e proprio Mario un giorno si lamentò con me: “Chi ha dato il mio indirizzo a questo scocciatore!”; tempo dopo, a pranzo, Nanni mi allungò dei fogli: “Dimmi cosa ne pensi”. Era la sceneggiatura di Ecce bombo.
Come mai la vendetta?
Perché, specialmente nei primi tempi, mi sentivo una compagna di avventura molto più fragile dei personaggi delle fiabe, molto più di Alice nel Paese delle meraviglie; (pausa) mi sentivo una marziana e non solo per via di Mario.
I suoi genitori?
Quando gli ho rivelato la mia relazione sono quasi morti e subito dopo la mazzata sono fuggita per Parigi: lui mi aspettava lì…
Romanticone.
Mario? Mi sono trovata con Mastroianni, Ferreri, la Deneuve, la Clement, i paparazzi a inseguirci, io che non sapevo come comportarmi, non sapevo neanche cosa indossare, in mezzo a tanta bellezza ed eleganza; (pausa) in macchina sentivo l’odore di Chanel delle signore, guardavo i loro sandali di marca; io avevo il deodorante e indossavo delle scarpe marroni, pure sfondate.
Allora come mai Parigi?
Erano ospiti d’onore di un produttore: il ricevimento si teneva su un battello lungo la Senna con uno chef famosissimo per le sue creazioni da nouvelle cuisine.
Da sogno…
Per niente. Quel gruppo di pazzi era scocciato per il cibo, borbottavano, confabulavano, in particolare Marcello distrutto che invocava altro: “Mariù, due uova al tegamino con la mozzarella, una gricia, un bicchiere di rosso…”. Fino a quando decisero di fuggire, decisero di lanciarsi appena il battello si fosse avvicinato alla banchina per permettere ad altri ospiti di salire. Una follia. Roba da cascare in acqua e farsi malissimo.
E…
L’abbiamo fatto. Poi mentre correvamo sentivo il capitano urlare: “Chiamo la polizia, vi denuncio!”.
Nel libro narra di un viaggio a Manhattan.
C’erano pure Alberto Sordi e Monica Vitti, ospiti d’onore al Metropolitan. Lì troviamo un numero incredibile di fotografi, il cordone della polizia e la sala gremita. Tutti entusiasti, tutti in attesa. Alberto si avvicina al palco con flemma studiata e chiede al pubblico di potersi esibire in tre numeri studiati da mesi: inizia con “l’aereo” e come un bambino delle elementari apre le braccia e con il vocione fa “ruuuuuum”. Silenzio in sala. imbarazzo totale.
E poi?
Ha continuato con la gallina e la mucca. Solo Woody Allen ha capito la genialata: rideva; (pausa) Alberto aveva mandato un messaggio: “Voi figli del metodo Strasberg, del colonialismo culturale, voi che vi sentite dei padroni… non provate a guardare con paternalismo il cinema italiano! Io Alberto Sordi me ne fotto, non devo dimostrarvi nulla”.
Lei ha assistito al celebre metodo Strasberg.
Sul set di Un borghese piccolo piccolo; in una scena drammatica vidi Shelley Winters seduta in un angolo: gli attrezzisti le avevano piazzato nel reggiseno un mini registratore con strazianti canti yiddish perché la musica la riportava al suo triste passato ebraico. Le serviva per piangere. Poco lontano da lei c’era Sordi appoggiato a un palo mentre mangiava un panino con la mortadella e beveva vino rosso. Alberto ci mise un secondo a entrare nella parte e fu strepitoso.
Il suicidio di Monicelli non l’ha stupita…
Il padre si era ammazzato per motivi politici e poi Mario aveva un rapporto particolare con la morte, molto semplice, diretto, coraggioso: l’ha inserita in quasi tutti i film. Solo il fratello più piccolo si stranì: gli aveva promesso che sarebbero andati in Svizzera insieme, per una dolce morte.
Lei chi era allora e chi è oggi?
Ero tutto ciò che sono i ragazzi: un po’ fragile, un po’ impaurita, una foglia al vento portata da altri; oggi so chi sono, sono meno allegra di allora, ma sono comunque io, appartengo a me stessa.
Più triste, però.
La vita si è un po’ spenta, non ho più incontrato uomini all’altezza di quei grandi e mi domando se è meglio essere frastornati in un mondo incredibile o più spenti ma padroni se stessi.
Risposta?
Ancora non lo so.