Avvenire, 16 settembre 2023
Ecco perché l’Europa ha paura del “negro”
Trascendere i nostri limiti corporei, l’ultima frontiera, è sempre stato il nostro sogno. Ci costerà la Terra. Ora la strada dello shock è spalancata e molti si interrogano su quella che chiamano «possibilità di fascismo», mentre la democrazia liberale, un orizzonte di aspettative privo di sostanza, continua a sgretolarsi. Non importa che la Dichiarazione universale dei diritti umani, all’articolo 13, affermi che ogni abitante della Terra «ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni stato». La Terra non appartiene più a tutti e, allo stesso tempo, non c’è quasi nessuna «casa propria» a cui tornare. Tutto si riduce al calcolo. Non esistono più diritti duraturi. Tutti i diritti sono revocabili. Allo stesso tempo, le tecnologie computazionali e le grandi corporation tentacolari continuano ad assediarci e a esercitare un influsso smisurato sui nostri desideri e comportamenti. Quindi quest’epoca non è solo strana, ma favorisce anche eccessi di ogni tipo, e senza una finalità apparente. È stato così fino a non molto tempo fa. La domanda allora era come riformare lo sguardo e uscire dalla crisi in un modo che non conducesse al nulla totale. Riemerge la “possibilità del nulla” e con essa quella della “bestia bruta”. Dall’avvento dell’età moderna, si è sempre pensato che il nulla e la “bestia bruta”, il negro, fossero la sua manifestazione accecante, allo stesso tempo larvale e crepuscolare. In realtà, con un formidabile atto di proiezione fantasmatica, l’Europa trasferì la propria parte di tenebra su questo soggetto inesistente (il negro). Ecco perché il dibattito sull’uscita dalla “crisi dell’umanità europea” divenne inseparabile dalla questione negra e, oltre a questa, da quella della “Terra intera”. La questione negra, cioè la questione della “Terra intera”, l’Europa se l’era sempre posta, ogni volta da una posizione di eccezione, come se non ne facesse parte. Ora, la storia sotterranea della metafisica occidentale, di cui la tecnologia è tanto la struttura ossea (lo scheletro) quanto la carne, è abitata dalla figura del negro o da essa ossessionata. Detta figura non emerge dall’esterno, ai margini o ai confini di un’Europa che si è arrogata il titolo di umanità definitiva. Il negro, l’impensato della metafisica occidentale, ne costituisce il suo basamento e una delle sue proiezioni più significative: il negro in quanto nome della “Terra intera” o, almeno, delle sue viscere.
È sempre stato così, e prima di tutto attraverso la lente variegata di ciò che la sua presunta assenza di volto e di nome nascondeva, in relazione a ciò che le sue forme informi traducevano e, cosa ancora più opprimente, in termini di molteplici usi a cui poteva essere asservito. Tempo fa, infatti, «quando la frenesia dell’oro drenò sul mercato l’ultima goccia di sangue indiano», lamentava René Depestre ( Minerai noir, 1956), «ci si rivolse al muscoloso fiume dell’Africa per trovare sollievo dalla disperazione». Così iniziò la corsa al tesoro inesauribile della carne nera. Corpo-carne, corpo-minerale, corpo-metallo, corpo- ebano, gente ripulita e derubata – come esclamava – quasi a sottolineare il dramma di un’umanità rinchiusa nella notte del corpo e, oltre a questo, il dramma della “Terra intera”, aperta fin nelle sue viscere più profonde, a cominciare dall’Africa, sua culla e primo paese natale (Aimé
Césaire). E se all’inizio del mondo c’era l’Africa, per contro nel negro l’Europa ha percepito solo una grave minaccia all’umanità dell’uomo. All’unico uomo attualmente preso come standard dell’umano, il negro ricorderà non solo ciò che era stato e ciò a cui era sfuggito, ma anche ciò che rischiava di diventare di nuovo: la minaccia di reversione a uno stato da cui si riteneva fosse uscito per sempre. Il negro non rappresentava forse, per definizione, l’estinzione del soggetto, ciò che esautora lo spirito? Non era forse fondamentalmente votato alla perdita? La “perdita del negro” – e di conseguenza quella della “Terra intera” – si riteneva non dovesse lasciare alcuna traccia, alcun segno nel solco del tempo e nella memoria dell’umanità. Sia la sua presenza sia la sua perdita non erano registrabili.
Quando nel periodo tra le due guerre il nostro popolo si occupò di questa figura allucinatoria, fu per farne un contrappunto radicale al mito secondo il quale l’Europa sarebbe il luogo del compimento finale dell’umanità. Ma forse oggi dovremmo andare oltre. Forse sarà il luogo in cui l’umanità troverà la sua fine, il luogo della sua sepoltura. Per i nostri predecessori, l’inquietante figura del negro non serviva solo a porre in termini nuovi il complesso problema del rapporto tra cultura e razza, o tra storia ed estetica. Era anche un modo per interrogarsi sulle possibilità di liberazione dell’intero genere umano, un presupposto indispensabile, o almeno così pensavano, per superare la contraddizione tra forza e giustizia, per reinventare la Terra e, diremmo oggi, per ripararla.
Perché questa è l’ultima possibilità di scelta. O la riparazione o il funerale. Non ci saranno fughe verso nessun esopianeta… Una nuova politica di riparazione non implica solo una ridistribuzione dei posti occupati dagli uni e dagli altri, esseri umani da una parte e tutto il resto dall’altra. Essa invita anche ad altre modalità di negoziare e risolvere i conflitti che suscitano diversi modi antagonistici di abitare il mondo, e a un vasto riordino delle relazioni. La riparazione richiede la rinuncia a forme esclusive di appropriazione, il riconoscimento che esiste l’incalcolabile e l’inappropriabile e che, di conseguenza, non ci può essere possesso e occupazione esclusivi della Terra. Come istanza sovrana, essa appartiene solo a se stessa e nessuno può recingere la sua riserva di materia germinale, né in anticipo né per l’eternità.