Avvenire, 16 settembre 2023
Regole di bilancio, “molto rumore per nulla”
Gli attacchi del governo Meloni al commissario Gentiloni sono strumentali e autolesionistici.
È evidente il tentativo di cercare un capro espiatorio per giustificare l’impraticabilità delle promesse urlate nell’ultimo decennio da Fdi all’opposizione e ora riproposte, insieme agli altri partiti del centrodestra. Il commissario Ue dell’Italia, non del centrosinistra, fa quello che può. Come faceva quello che poteva Antonio Tajani, quando nell’estate del 2011 il governo Berlusconi riceveva le esiziali “raccomandazioni” dalla Commissione Europea e l’ultimativa lettera della Bce a firma Trichet-Draghi. La presa di distanza dal comportamento del governo e il riconoscimento del lavoro del nostro commissario non implicano, tuttavia, rassegnazione, acritica adesione o finanche soddisfazione per la politica economica attuata dall’Unione Europea – a cominciare dalle scelte recessive di Francoforte– e per la proposta di revisione delle regole di finanza pubblica. In particolare su quest’ultima, sarebbe utile archiviare la propaganda, alimentata anche dagli editoriali dei “tecnici” sui quotidiani, e guardare in faccia la realtà: le modifiche in discussione possono determinare miglioramenti minimali, sostanzialmente irrilevanti, ma al costo di allargare la discrezionalità politica di consessi tecnici, che verrebbe loro conferita in dosi ancora maggiori per definire il “sentiero di discesa plausibile del debito” e il valore del deficit “sotto del 3% del Pil”. Premesso che l’arma più efficace per indurre all’ortodossia economica i governi rimane fuori discussione, ossia l’intervento Bce sui titoli sovrani, per misurare la portata della cosiddetta “riforma” il confronto va fatto con l’effettiva applicazione delle regole in vigore, improvvisamente esecrate da tutti come procicliche. Infatti, i rigidi parametri formali riattivati dal 2024 – la riduzione di 1/20 dell’eccesso di debito oltre il 60% in rapporto al Pil e il taglio del deficit strutturale di mezzo punto di Pil all’anno fino al pareggio, come scritto nel Fiscal Compact -, in quanto irrealistici sono stati sempre disattesi attraverso il richiamo ai “fattori rilevanti”, specie nelle fasi recessive. Pertanto, la flessibilità c’è già di fatto.
L’altra grande presunta conquista, l’ownership (il protagonismo nelle scelte), è difficile da ritrovare, dato che è affidato alla Commissione il compito di specificare la variabile-chiave per il verdetto sul bilancio, ossia la “traiettoria tecnica” della spesa al netto di interessi, entrate discrezionali, investimenti finanziati da risorse comunitarie e ammortizzatori sociali. Certo, poi la Commissione negozia con il governo interessato, ma in uno spazio politico nascosto dietro numeri arbitrari, come il Pil potenziale, il “nawru” (il tasso di occupazione limite stimato per evitare effetti inflattivi), l’analisi di sostenibilità del debito pubblico. Va sottolineato, inoltre, che la flessibilità scatterebbe solo a patto di attuare altre “riforme strutturali” (privatizzazioni, liberalizzazioni, precarizzazione del lavoro), estratte dal decalogo del “Washington Consensus”, rottamato dalla Casa Bianca ma ancora ben piantato nella “capitale” dell’Ue. In sintesi, proprio come in Shakespeare, “molto rumore per nulla” di fronte ad una fase straordinaria della Storia, segnata da una guerra incancrenita, dall’impennata del debito “buono”, dalla necessità di ampi investimenti pubblici per la conversione ecologica (la Commissione stima in media un + 1,8% di Pil all’anno almeno fino al 2030) e dagli enormi costi per la ricostruzione dell’Ucraina. Rimangono fuori dalla discussione misure imprescindibili per raggiungere gli obiettivi condivisi dall’Ue: un bilancio minimo comune per l’eurozona, invocato da ultimo da Mario Draghi; la trasformazione del debito Covid, comprato dalle banche centrali col programma PEPP, in titoli perpetui da lasciare fuori dai mercati; una qualche “golden rule”. Quindi, che fare? Si ridimensioni la portata della proposta della Commissione e se ne subordini il via libera a una discussione sulle misure per evitare che l’Ue si consolidi come feroce mercato di svalutazione del lavoro e spazio commerciale senza soggettività politica. Il ritorno a brutte regole inapplicabili non sarebbe una sciagura e lascerebbe aperta l’urgenza di interventi. Così forse gli Stati della “vecchia Europa” si muoverebbero verso una cooperazione rafforzata per condividere una politica estera e di difesa e gli strumenti finanziari minimi per realizzarla.