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 2023  settembre 17 Domenica calendario

Il nuovo film di Pedro Almodovar

«Come cineasta nasco in piena esplosione del postmoderno: le idee provengono da qualunque parte; tutti gli stili e le epoche convivono, non esistono pregiudizi di genere né ghetti; non esiste nemmeno il mercato, soltanto la voglia di vivere e di fare cose. Era il brodo di coltura ideale per uno come me, che voleva divorare il mondo».Ha continuato a farlo Pedro Almodóvar: divorare il mondo, prendere la vita e farne racconto. Una filmografia che gli fa da specchio – da Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, ritratto affettuoso e già venato di malinconia della Madrid della movida postfranchista; a Donne sull’orlo di una crisi di nervi, orgoglio femminista in chiave di commedia brillante; fino al poker melò Tutto su mia madreParla con leiLa mala educaciónVolver; per arrivare alla sua opera più politica, Madres paralelas, risposta da figlio della transizione al risorgere dell’estrema destra in Spagna, in cui il regista manchego è rimasto fedele a una sola legge, quella a cui ha intitolato la compagnia fondata con il fratello: El deseo.
Il desiderio, chiave di comprensione del disordine e delle follie della vita, è la materia che Almodóvar ha fissato su pellicola e su carta. Senza distinzione di generi, canoni, formati. L’uscita quasi contemporanea in Italia del suo nuovo film — Strange Way of Life, al cinema il 21 settembre con Teodora, quindi in streaming su Mubi – e del suo libro di racconti, L’ultimo sogno (Guanda) è una chiave di accesso perfetta al suo universo.
«La Lettura» ha incontrato Pedro Almodóvar in occasione dell’anteprima a Cannes del suo secondo cortometraggio, dopo The Human Voice con Tilda Swinton. Un western, girato a Almería, nei luoghi iconici di Sergio Leone. Protagonisti: Silva (Pedro Pascal) e il suo vecchio amico Jake (Ethan Hawke). Venticinque anni prima si sono amati. Erano pistoleri dalla mira infallibile: uno oggi è ranchero, l’altro lo sceriffo di Bitter Creek, incaricato di catturare un assassino che secondo i testimoni sarebbe il figlio di Silva, pronto a fare di tutto per mandare a monte l’arresto. Anche riaccendendo la fiamma del desiderio che tra loro non s’è mai spenta.
Più che Almodóvar che entra nel mondo western, sembra il western a fare il suo ingresso nel mondo di Pedro. Perché ha scelto un altro cortometraggio, in realtà un mediometraggio, per farlo?
«Il mio obiettivo fin dall’inizio non era girare un lungometraggio ma mettere questi due personaggi in una circostanza molto concreta, osservare le loro reazioni, diverse, quasi opposte, alla stessa situazione. Questo formato di 30 minuti mi sembrava più adatto: non lo considero meno importante, richiede la stessa fatica di un lungometraggio. Ma mi sono sentito più libero. Era già successo con La voz humana con Tilda Swinton. Mi sento più sicuro. E in entrambi i casi l’ho sentito anche come l’occasione di fare pratica per un lungometraggio in inglese che prima o poi girerò. Il cuore della storia è la discussione tra loro due, Silva e Jake, la mattina dopo l’incontro, mentre si rivestono. Tra loro c’è stata una storia d’amore anche se Jake è restio ad ammetterlo».
Come l’è venuta l’idea?
«Alla base c’è un testo scritto quattro anni fa. Una decina di pagine proprio con quella scena. In genere quando scrivo non comincio dall’inizio della storia, ma dalla parte centrale. Se mi convince, ci costruisco intorno il resto».
Ricordiamo citazioni di Johnny Guitar in Donne sull’orlo di una crisi di nervi, o il finale di Duello al sole di King Vidor in Matador. Da dove nasce la sua passione per il western?
«Quand’ero bambino il genere era molto popolare, ma non ci facevo granché attenzione. Per dire, gli amici giocavano in strada a cowboy e indiani. Io no. Il western per me è un genere da adulti, l’ho scoperto a Madrid a 18 anni, facendo indigestione di classici alla Cineteca. Uno dei primi che mi ha colpito è stato Red River, Il fiume rosso di Howard Hawks: mi ha impressionato moltissimo. Poi tutto John Ford, Aldrich, Fuller, e molti titoli considerati di serie B. È diventato un genere del mio cuore. Sognavo di fare il regista, ho capito che prima o poi ne avrei fatto uno».
Com’è noto, le avevano offerto la regia di Brokeback Mountain che poi girò Ang Lee...
«Il primo film in inglese che mi proposero a Hollywood fu il remake di Donne sull’orlo di una crisi di nervi con Jane Fonda che aveva comprato i diritti. Ma non avevo voglia di rifare un film che avevo già fatto, pensarono di affidare la regia a Herbert Ross, però non ne venne fuori un copione che lo convinceva. Jane Fonda poi incontrò Ted Turner, si innamorò di lui, e il film rimase sulla carta. Molte volte mi hanno cercato, mi hanno proposto tante cose, ma ho sempre avuto paura all’ultimo momento che il mio inglese non fosse sufficiente. Anche Julieta era stato scritto per essere girato in inglese, si sa. C’era stata anche l’ipotesi che facessi il film dal racconto di Annie Proulx, l’avevo amato; ma credo che Ang Lee l’abbia fatto benissimo. È il film hollywoodiano che meglio racconta la storia di due uomini che si amano e parlano del loro amore; però i protagonisti sono pastori, non lo considero un western. Prima di Strange Way of Life in realtà avevo considerato un altro progetto».
Quale?
«All’inizio degli anni Novanta ho comprato i diritti di un libro, The Man Who Fell in Love with the Moon di Tom Spanbauer, scrittore americano, sulla seconda corsa all’oro in Idaho, alla fine del XIX secolo. Un racconto molto esplicito in tema di omosessualità, il protagonista è un mezzosangue bisessuale. Feci un primo trattamento, avevamo cercato uno scrittore americano con cui lavorare ma si spaventarono: parlava di gay, nativi... Era un tema considerato troppo delicato».
Niente gay nel Far West.
«Il western nasce già all’epoca del muto, il primo titolo è del 1903. Hollywood ne ha inventato il canone, ha creato l’epica della conquista del West dopo la guerra di secessione. Un genere totalmente maschile con opere memorabili ma che ha lasciato una zona inesplorata: il desiderio tra due uomini».
I suoi protagonisti sono stati amanti, il cuore del film è una notte d’amore di cui non mostra però scene di sesso esplicite. Come mai?
«Una questione di stile. Ho girato tante scene erotiche nei miei film, credo di avere dimostrato che non ho problemi. Il sesso visto al cinema a volte può essere solo una questione fisica, più ginnastica che erotismo, non sentivo questa necessità. Volevo mostrare piuttosto cosa significhi per loro essersi ritrovati, avere vissuto di nuovo la passione, volevo che parlassero di cosa era successo. Tra loro c’è molta intimità. Silva cerca le sue mutande, noi sappiamo che è nudo vicino a Jake, mi sembra tutto molto sexy, si sente una forte tensione erotica. Mi intrigava l’idea che le parole fossero nude, che parlassero di desiderio, del loro legame di 25 anni prima. Con il tempo anche il desiderio cambia, ne arriva un altro che non ha nulla a che vedere con la carnalità, piuttosto con il modo di vivere, di parlare, di amare le stesse cose, di prendersi cura uno dell’altro. Questo è amore».
Le sue scene erotiche, peraltro, hanno fatto scuola.
«Ho usato spesso l’erotismo come chiave narrativa. Per esempio in Legami! era importante mostrare che i personaggi interpretati da Victoria Abril e Antonio Banderas avessero fatto sesso nel bagno della discoteca, ma lei non ricordava nulla mentre lui ne è ossessionato. La donna se lo ricorda solo quando lo fanno di nuovo. Era una scena esplicita e così veritiera che la censura spagnola, benché avessi inquadrato gli attori solo a mezza figura, voleva bloccare il film: pensava che avessi veramente chiesto a due attori di fare l’amore davanti alla cinepresa... Questo invece è un western classico: la novità è mostrare due uomini che parlano del loro rapporto e intanto rifanno il letto in cui si sono amati. In nessun western precedente l’abbiamo visto, mi pare più sovversivo. Ma non è una scena gratuita, non era un mio sfizio: Jake non sa come rispondere a Silva, è a disagio; mettere in ordine la camera significa in qualche modo cancellare quello che è successo tra le lenzuola. E poi sì, mi divertiva l’idea che invece di pulire le pistole come si vede sempre, i due cowboy rifacessero un letto. Anche quando cenano – uno dei due ha cucinato lo stufato per l’altro – parlano del loro amore, il modo in cui Pedro guarda Ethan lo turba, è uno sguardo carico di desiderio».
Ha sempre avuto in mente Pedro Pascal ed Ethan Hawke come protagonisti di questo nuovo film?
«Normalmente quando scrivo non visualizzo gli attori, la ricerca degli interpreti comincia dopo. Sapevo solo che volevo due uomini nella loro maturità, molto diversi tra loro dal punto di vista fisico, caratteriale e anche culturalmente. Appena ho finito la sceneggiatura ho pensato immediatamente a Pedro ed Ethan. Sapevo che Ethan avrebbe reso benissimo la distanza sentimentale che impone alla relazione, con qualcosa di ermetico che rende impossibile capire cosa abbia in testa. Il suo Jake è uno sceriffo non distante da quello dei film western che conosce bene. È texano, c’è l’ha nel sangue. Con Pedro Pascal ci conoscevamo, abbiamo amici in comune. Fisicamente è molto diverso, ha origine latine, anche se è americano d’adozione, mi serviva un tipo sentimentale ma insieme vagamente truculento. Abbiamo aspettato che finisse di girare la serie The Last of Us. Ormai è una star a Hollywood, uno dei più richiesti. Sono due attori molto bravi, li ho visti entrambi recitare a teatro, è stato un regalo della vita quando mi hanno detto sì. Avevo solo un timore con Ethan. Dopo avere visto il documentario meraviglioso che realizzato su Paul Newman e Joanne Woodward – di cui consiglio la visione a chi non l’ha visto – che mi arrivasse sul set con la voglia di fare qualcosa “alla Paul Newman”. Niente di tutto questo. Come dice lui, ogni attore deve trovare la sua strada, quelli che imitano i colleghi non vanno lontano».

Il suo cinema è sempre stato carico di tributi agli autori del passato. Qui si sente la voglia di rendere omaggio ai grandi interpreti del genere. Da Douglas Sirk al Kirk Douglas di Sfida all’O.K. Corral.
«È stato, in effetti, uno dei modelli che avevamo in mente per il personaggio di Jake. Ma per Strange Way of Life i riferimenti sono anche le grandi storie d’amore del cinema noir americano, un omaggio a quel cinema di autori e attori capace di comunicare passioni forti con lo sguardo. Pensiamo alla tensione erotica tra Gene Tierney e Cornel Wilde in Femmine folli solo per fare un esempio. Bastava un primo piano, si sentiva il desiderio, anche se non c’era nessun scena di nudo».
Avete girato nella terra degli spaghetti western, il deserto di Tabernas, a nord di Almería, dove Sergio Leone girò la sua trilogia.
«Lui ha fissato il canone del western all’europea, quei luoghi ne sono la testimonianza. I suoi set sono ancora lì, con il tempo hanno acquisito autenticità, senti lo spirito di Clint Eastwood. Ma dal punto di vista narrativo il legame è con i classici americani. E, non a caso, la colonna sonora di Alberto Iglesias ha evitato di evocare il maestro Morricone».
Il film si apre con un fado a cui ha preso in prestito il titolo: Estranha forma de vida di Amália Rodrigues.
«Nella versione di Caetano Veloso per Fado di Carlos Saura, magnifica. “Non c’è forma di vita più strana che vivere voltando le spalle a te stesso”».
E i costumi? Silva entra in scena con una giacca verde squillante.
«Hollywood ha creato un canone anche dal punto di vista estetico. E io sono stato fedele a come il cinema ha raccontato quell’epoca, non alla realtà storica. Volevo qualcosa di molto colorato ma avevo bisogno di trovarlo sullo schermo per sentirmi autorizzato a usarlo. Ho visto una serie infinita di film e l’ho trovato: la indossa James Stewart in Là dove scende il fiume di Anthony Mann».