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 2023  settembre 17 Domenica calendario

Sui meme

Un paio di settimane fa, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha avuto un incidente che lo ha costretto a mettere una benda su un occhio. La sua prima dichiarazione è stata: «Ora aspetto i meme». Cioè che la rete e in particolare i social network si scatenino nell’abbinare i commenti comici più vari e fantasiosi a questa mia immagine. Se ne deduce che il meme è ormai universalmente considerato la nuova forma, condivisa e collettiva, di satira. La disintermediazione tipica di internet, sottolineano Debora De Fazio e Pierluigi Ortolano nel loro La lingua dei meme, «ha liberato impressionanti masse di energie nuove che si esercitano sulla satira politica come su quella sportiva, sul costume come sulla religione».
Meme, non memeMeme. Il nome, così come il fenomeno, è internazionale; e la sua diffusione è – almeno in Italia – più recente della cosa. Per la campagna elettorale del 2001, Silvio Berlusconi sfoderò uno dei suoi slogan vincenti: «Meno tasse per tutti», tappezzando l’Italia di manifesti 6x3 con quel testo accompagnato dal suo classico ritratto. Nel giro di pochi giorni, la rete si popolò di varianti parodistiche, tra cui «Meno tasse per Titti» (l’uccellino di Gatto Silvestro) e – forse la più memorabile – «Meno tasse per Totti». Erano meme, ma nessuno ancora li chiamava così. Mentre oggi nessuno esiterebbe a definire come meme l’immagine dello stesso Totti con la maglietta sollevata che lascia vedere sulla canottiera la frase «C’ho n’artra!» proprio là dove il calciatore in un derby del 2002 aveva scritto il suo messaggio d’amore per Ilary Blasi («6 unica!»). Se vent’anni fa ebbe successo un libro con Tutte le barzellette su Totti, oggi ci sono tantissimi siti che raccolgono tutti i meme su di lui (o su qualsiasi altro soggetto). Ormai non si dice più «la sai l’ultima?», ma «l’hai vista l’ultima?». Le vignette satiriche sono diventate seriali, le barzellette visuali (seriali lo sono sempre state) e ibridandosi hanno dato vita a ciò che oggi chiamiamo meme.
MementoIl nome è inglese: ma era nato per qualcos’altro. Coniato dal biologo Richard Dawkins nel 1976, meme (pronunciato «miim») intendeva definire un tratto culturale che si propaga quasi alla stregua di un gene (pronuncia inglese «giin»): «Saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione». Il libro in cui la parola appare la prima volta s’intitolava The Selfish Gene («Il gene egoista», i selfie non c’entrano) e il parallelismo era cercato anche tramite quel nome bisillabo, ricavato da un più lungo mimeme ispirato al greco mímesis ovvero imitazione. Fin dal nome, insomma, il meme porta con sé due caratteri: quello di moltiplicarsi per imitazione (è mimetico, appunto) e quello di rimanere impresso (di essere memorabile). Impresso nella retina, verrebbe da dire, prima ancora che nella memoria. Possono esserci meme fatti di solo testo o di sole immagini, meme dialogici o monologici; ma il mezzo di trasmissione – anche delle parole – è sempre visivo. Il meme standard è composto da una combinazione variamente graficizzata di figure (fotografie, fotogrammi di film, disegni, fumetti) e parole (a volte citazioni più o meno distorte).
Cattivissimo memeIl meccanismo si basa di solito su un doppio tipo di riuso: uno verticale e uno orizzontale. Il primo si stratifica a partire dall’immagine-puntello usata per avviare la memificazione. Mettiamo l’inquadratura di un film di culto come Matrix o il gesto di Lionel Messi dopo un gol della Juventus contro il suo (all’epoca) Barcellona. Da lì parte il riuso orizzontale, con il proliferare di varianti a partire da una frase-ritornello. Nel primo caso What if I told you… (peraltro mai pronunciata nel film), resa fedelmente nella versione italiana con: «E se ti dicessi che …». Nel secondo, quel «Quando…» che introduce l’analogia con una certa situazione. Un incipit memetico diffusissimo, come conferma anche l’edizione italiana di un gioco da tavolo molto fortunato: What Do You Meme?, in cui le 360 carte didascalia che vanno abbinate con le 75 carte immagine cominciano tutte così. L’effetto umoristico funziona appieno quando e se – appunto – alla base del meme c’è un’enciclopedia comune condivisa. Quella per cui si riconoscono i personaggi e contesti riusati nell’immagine-puntello e i frammenti ripresi nella frase-ritornello. La reiterata ripetizione con variatio è il principio fondante dei meme.
Frammenti di un discorso clamorosoProprio come accade per i titoletti di questo articolo creati ricalcando titoli di film (Memento, Cattivissimo me) o di libri (Frammenti di un discorso amoroso). Ma anche Meme, non meme presuppone il proverbiale M’ama non m’ama di chi sfoglia la margherita come un oracolo: la parte visuale avrebbe potuto essere proprio questa. Per quanto riguarda la parte verbale, da qui sarebbe potuto gemmare un ulteriore Meme, non memi per alludere al fatto che il plurale invariato è più diffuso del regolare memi (come geni) o un Meme, non tete per alludere all’egocentrismo dilagante in questo tipo di comunicazione o ancora un (A) memi non si dice e così via … È quella derivazione a raggiera che in inglese viene chiamata snowclone: letteralmente «copia di neve», alludendo all’idea per cui la lingua degli Inuit avrebbe moltissime parole diverse per riferirsi alla neve. Qualcosa che somiglia molto al concetto di «irradiazione deformata» con cui nel lontano 1994 Luca Serianni spiegava il riuso satirico degli slogan politici. La «gioiosa macchina da guerra» di cui parlava il leader dello schieramento progressista Achille Occhetto – ad esempio – era diventata, dopo la sconfitta elettorale, «noiosa macchina da guerra» o «gioiosa macchina da pisolo» (esattamente lo stesso procedimento di «Meno tasse per Totti»). Anche la lunghezza dei meme, d’altra parte, è riconducibile alla dimensione di uno slogan: è stato calcolato che mediamente si va dalle 9 alle 30 parole.
GrammematicaLe parole foderano di solito l’immagine in una specie di sandwich che procedendo dall’alto in basso prepara la premessa e poi piazza la battuta. La precedenza è data sempre, per le ragioni di riconoscibilità di cui abbiamo detto, alla parte formulare. In una lingua ispirata all’oralità, la caratterizzazione comica attinge a tutte le risorse più tipiche del genere: dalle parolacce al dialetto (che a volte può combinarsi con un inglese più o meno maccheronico) agli errori grammaticali. Ortografia, punteggiatura, coniugazione dei verbi, costrutti sintattici, malapropismi («tallone da killer», «dolori aromatici»). Il filone dei meme che prendono in giro gli strafalcioni linguistici è così florido che De Fazio e Ortolano nel loro libro avanzano la proposta di usarli come risorsa per l’insegnamento. Il suggerimento è quello di partire dall’osservazione degli errori, per avviare una riflessione sulle strutture della lingua e sul loro uso corretto: «Meme e grammatica potrebbero essere la nuova frontiera della didattica 2.0». Un po’ come in una delle strisce del fumettista Pera Toons diventate virali in rete (ormai dobbiamo chiamarle meme d’autore?) in cui il protagonista riceve il messaggio «Mi anno rapita! Aiuto!» e pensa tra sé e sé «Ma è gravissimo!»; poi risponde: «*hanno».

Debora De Fazio
Pierluigi Ortolano
La lingua dei meme
Carocci