il Giornale, 17 settembre 2023
Ricordo di Oriana Fallaci
Oriana la vidi, più che la conobbi, per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta, quando scriveva le sue interviste colossali e interminabili, che erano quasi dei romanzi, a personaggi come Khomeyni, capo spirituale e politico iraniano dal 1979 al 1989, Gheddafi, leader assoluto della Libia, e gentaglia simile. Fallaci, non essendo una giornalista ordinaria, non è che vergasse la dannata intervista e la mandasse attraverso gli stenografi o il fax. Il suo dattiloscritto non viaggiava mai da solo. Giungeva in redazione insieme alla sua autrice, che si fermava in via Solferino fintanto che il suo articolo non fosse stato impaginato con il titolo che decideva lei, nel modo in cui voleva lei, quando lo stabiliva lei. E noialtri tutti zitti e mosca. A un dato momento compariva al primo piano, dove si creava una confusione da manicomio. «Oddio, c’è la Fallaci», si udiva riecheggiare nei corridoi «si salvi chi può». Non andava mai bene niente. Oriana ribaltava anche ciò che era pronto. Roba da prenderla a sberle. «Avanti, ricominciamo daccapo». «Meglio così?» «Meglio un corno» protestava lei dando del bischero a chiunque. Un delirio. Fallaci si imponeva pure per i dettagli, i sommari, i titolini che servono per spaziare il testo. Non lasciava scampo. Arrivava come una dea e una tiranna e metteva a soqquadro il quotidiano. Si scatenava la guerra una volta che Oriana varcava la soglia dello stanzone albertiniano, una copia di quello del Times, dove c’erano le postazioni dei giornalisti, alcuni dei quali dovevano dedicarsi esclusivamente a lei. Uno di questi era il malcapitato Sandrino Rizzi, caposervizi degli esteri, la vittima prediletta di Oriana, la quale, forse non ricordandone mai il nome, gli aveva affibbiato un nomignolo alquanto mortificante, soprattutto per un uomo: «Cosino». Rizzi, da parte sua, non osava ribellarsi o protestare. Non appena udiva la mitica sospirare: «Cosino, vieni qui», Sandrino trottava, si precipitava, accorreva, al fine di soddisfare qualsiasi capriccio di Oriana. Le impuntature della fiorentina facevano rabbrividire, si potevano perdere delle ore per un nonnulla, che per Oriana era tutto, in quanto era una perfezionista ossessiva, una maniaca della punteggiatura. Dalla mia scrivania, muto, osservavo le grandi manovre fallaciane e queste scene un po’ divertito e un po’ sconvolto. «Questa donna è una calamità» pensavo. Lo spettacolo si protraeva fino alle 23. Per la redazione, in subbuglio per il pezzo di Fallaci, sembrava a un certo punto arrivare la tregua quando l’articolo era ormai impaginato. Macché. Era tutta una diabolica finta. Mentre si rileggevano in religioso silenzio i bozzoni delle pagine umidi e odoranti d’inchiostro, all’improvviso si udiva un improperio. Era Oriana, che era riuscita a ravvisare persino in questa fase qualcosa fuori posto, da rifare, da sistemare, da correggere seduta stante, mandando tutti in crisi psicomotoria. Tipografi che accorrevano con gli occhi sbarrati, correttori di bozze esausti e tremanti. Altro delirio. Alle due del mattino, cascasse il mondo, il giornale si chiudeva. Oriana Fallaci saltellante e vispa come un grillo, lanciata un’occhiata di commiserazione a noi poveri amanuensi, raccattava cappotto e borsetta, scendeva a passo svelto lungo lo scalone e, inghiottita da un’automobile, svaniva nella notte insieme ai nostri incubi. L’indomani il «Corrierone» con la perla di Oriana in apertura di prima pagina era preso d’assalto in edicola. Oltre un milione di copie vendute. La stampa di mezzo mondo che riprendeva la prosa della matta e ne faceva oggetto di dibattiti che duravano settimane. Allora i giornalisti, orgogliosi di avere partecipato alla costruzione del capolavoro di successo, e godendo di riflesso della gloria di Oriana, si davano di gomito: «Però, la matta ha colpito ancora». Fu durante una di quelle notti infernali che Fallaci entrò nella mia vita. Nel 1981, o ’82, una sera, saranno state circa le 22, dunque ancora nella viva fase di elaborazione di un suo articolo, mentre Oriana era indaffarata, intenta a cambiare un aggettivo, a togliere una virgola, a metterne un’altra, fumando come una ciminiera, a un certo punto si accorse di avere finito le sigarette. Sul suo viso lessi per un istante un lampo di disperazione. Ma non si perse d’animo e, dopo essersi guardata intorno con una rapida occhiata per scorgere qualcuno che fumasse, come un falco pose i suoi occhi su di me, che avevo un pacchetto di Muratti sulla scrivania, poggiato accanto alla Olivetti portatile. E in un soffio me la ritrovai dinnanzi alla postazione di lavoro a me riservata: «O te, bel giovane, mi offriresti una sigaretta?». «Prego» risposi, porgendo un intero pacchetto che avevo estratto dal mio cassetto appositamente per lei. Oriana, risollevata, anzi contentissima come una bimba, tornò al suo meticoloso lavoro di cesello sul suo pezzo. Sennonché, fumando una cicca dietro l’altra, dopo un’ora e mezza aveva già prosciugato le ultime riserve che le avevo procurato. Era un fumo nevrotico il suo. Rieccola lì, parata davanti alla mia scrivania. Sollevai lo sguardo dalle mie carte e vidi che mi fissava. «Ne hai altre?» mi chiese. «Non ho più pacchetti, ma te ne do alcune delle mie». Ne estrassi tre o quattro per me e le lasciai il resto. Afferrò il tutto e, prima di girare i tacchi, commentò: «Le Muratti non sono buone, pizzicano in gola». «Cambierò marca» replicai. «Bravo, vedo che le idee intelligenti non ti mancano». Mi sembrava una matta completa, ma ne ero affascinato, poiché Oriana metteva nel suo lavoro una tale foga e concentrazione da suscitare ammirazione. Fallaci terrorizzava chiunque, faceva casini, urlava, non era mai paga di ciò che si stava creando. Non era considerata né era vista come una donna, bensì come una giornalista scassacazzi, una sorta di Attila della carta stampata. Alcuni anni dopo passai dal Corriere della Sera alla direzione dell’Europeo, il settimanale che aveva lanciato Oriana. Chiamò in redazione chiedendo del direttore. Risposi. Fallaci mi salutò cordialmente, dicendo che le avrebbe fatto piacere incontrarmi per conoscermi di persona. Combinammo l’appuntamento presso il bar di un albergo, a Milano. Non appena mi vide nel luogo convenuto, Fallaci si alzò dalla poltrona e scoppiò a ridere. «Ma tu sei il bel giovane delle Muratti!». «Sì, sono io. Ma adesso fumo Philip Morris». «Sei peggiorato». Da quel giorno la nostra tribolata amicizia si intrecciò con il lavoro. Erano più numerose le liti delle conversazioni. Oriana si divertiva a questionare, qualsiasi spunto era motivo di piccoli scontri, cui seguivano immancabili riappacificazioni, talvolta precedute da scambi di lettere piccate. Oriana mi chiamava, mi dava suggerimenti sulle tematiche da approfondire, mi segnalava le campagne da sostenere, i motivi per cui battermi. A volte le dicevo che in Italia ormai era cambiata la musica, che era arrivata la Lega, lei replicava: «Ma chi? Quei bischeri? Sono proprio dei campagnoli». Ogni due o tre mesi rientrava in Italia e voleva vedermi. Fallaci si sentiva quasi esiliata, ma desiderava vivere negli Stati Uniti, nel centro di New York aveva una stupenda casa in stile liberty. Insomma, il suo era un esilio volontario e dorato. Però comprendo che in patria si sentisse avversata. Oriana era amata dai lettori ma non dai colleghi, che la invidiavano per i suoi successi e non la tolleravano per la sua arroganza e il suo caratteraccio. Solo con me la brillante giornalista non manifestava atteggiamenti di presunzione, era molto carina. Mi riempiva di regali. Un giorno concordammo una cena in via Statuto, da Alfio. Alle 21 ero seduto al tavolo. Di lì a poco arrivò lei trafelata, con un borsone gigantesco. «È per te, Vittorio!», esclamò con entusiasmo. Ne estrasse una pelliccia di visone tra lo stupore degli avventori, tutti attratti dalla Fallaci e soprattutto dalla pelliccia di foggia maschile. Dissimulai l’imbarazzo e cercai di manifestare gioia e qualcosa di più. Ma ero terrorizzato all’idea che, al prossimo rendez-vous, sarei stato obbligato a indossare quel capo per non offenderla. Oriana, vivendo gran parte dell’anno negli Stati Uniti, era diventata americana pure nei gusti, almeno a riguardo dell’abbigliamento da uomo. Mangiava come un uccellino: quattro granellini di riso insaporiti da una strisciolina di tartufo, tre o quattro acciughe salate, che prendeva con le dita per portarle alla bocca poiché diceva che in tale maniera le gustava di più. E beveva un vino dolce emiliano, Malvasia. Raccontava storie recitando con piglio da attrice teatrale, mimica formidabile, gusto per i dettagli, inserendo motteggi popolari e battute sferzanti. Una sera con lei di buonumore era più spassosa e sapida che al cabaret. Spigolosa e generosa, piena di slanci, si rabbuiava per un’inezia. E non apriva più bocca se non per dire: «O te, s’è fatto tardi, portami via da qui». Durante la guerra del Golfo Oriana si era recata sul terreno dei conflitti per conto del Corriere e mi propose di essere intervistata da me per L’Europeo. Non appena rientrò in Italia, ci incontrammo all’hotel Excelsior, a Roma. Tuttavia, forse per la nostalgia di casa che le aveva messo addosso l’atmosfera bellica, Oriana aveva fretta di rientrare a Firenze e non appena mi vide disse: «Si va da me. Subito». Così dalla Capitale ci spostammo nel capoluogo toscano in macchina. Il suo appartamento era modesto. Ci mettemmo immediatamente all’opera. Facevo le domande, lei rispondeva, poi si pentiva. Dopo qualche ora mi ero rotto i coglioni e mi ero procurato un mal di testa pazzesco. Non ce la facevo più. Ne avevo fin sopra i capelli di quella matta e non vedevo l’ora di essere a Milano. Sano e salvo. Erano circa le 20.30 quando le venne appetito. «Oh, si mangia qualcosa?», propose Oriana. «Volentieri» dichiarai io, che non vedevo l’ora di prendere respiro. Aprì il frigo e non trovò un cazzo. Mai frigorifero fu più triste di quello. L’unico elemento che alleggeriva un minimo tanta desolazione era costituito da un barattolo da mezzo chilo di caviale. Afferrate due posate, ci nutrimmo di cucchiaiate di caviale come fosse una minestra, rimettendoci subito al lavoro. Terminammo l’intervista a mezzanotte. Fu un parto travagliato. Oriana insistette a lungo affinché mi fermassi a dormire lì, ma io non avevo il cambio per il giorno seguente, e soprattutto ero animato da tanta voglia di rincasare e mi misi in macchina per correre a Milano, dove giunsi intorno alle 3 di notte. L’intervista fu un successo. Arrivato l’inverno, Oriana invitò me e mia moglie, Enoe, a trascorrere l’ultimo giorno dell’anno in corso e il primo di quello nuovo con lei, a Greve in Chianti, località in cui la giornalista aveva una casetta bellissima. Purtroppo, il freddo era insopportabile e io ed Enoe, nel tentativo di non morire assiderati, dormimmo avvinghiati. Era presente una delle due sorelle di Fallaci, Paola, con la quale Oriana litigò tutto il tempo, persino durante la cena, per motivi futili. A tavola consumammo una zuppa deliziosa. Io mi complimentai con le sorelle per la bontà di quel piatto. Non lo avessi mai fatto: Oriana si incazzò poiché non era stata lei a cucinare, bensì Paola. Avrebbe voluto averla preparata lei, quella maledetta minestra. Oriana aveva la sindrome della prima donna. Tornò a essere indiscussa e indiscutibile protagonista allorché iniziò a narrarci le vicende della guerra. Fallaci non si limitava a fare il suo racconto, si levava in piedi e sceneggiava il tutto come una diva. Noi la osservavamo affascinati e perplessi. Aveva la capacità di catturare il pubblico. Mia moglie aveva una simpatia particolare per questa donna, la quale spesso la chiamava per fare quattro chiacchiere. Quando finalmente arrivò il momento di andare, Oriana mi pregò di seguirla in quanto desiderava farmi visitare un suo vecchio casale, che avrebbe voluto vendermi. La costruzione si trovava in prossimità di un fiume. Un freddo boia. Non me la sentii di fare questo «investimento». Enoe mi guardava con gli occhi sbarrati per la paura che io potessi accettare l’affare. Dopo quel capodanno continuammo a vederci, poi nel ’92 i nostri incontri si fecero più sporadici. Io avevo assunto la direzione dell’«Indipendente» e per gli impegni reciproci ci perdemmo un po’ di vista. Oriana mi cercò qualche volta, io la scansai. Poi un giorno mi chiamò da New York e mi disse: «Vittorio, tu non mi vuoi più vedere perché ci ho i cancri». La rassicurai. Non era questo il motivo. Anzi, una ragione non c’era. A volte capita che i grandi amici si allontanino per un po’, ma ciò non vuol dire che l’affetto venga meno. Mi sembrava improbabile che avesse il cancro. Per chiunque Oriana era invincibile, una forza della Natura, indistruttibile: non poteva mica ammalarsi. Non la vidi mai piangere. «Ti voglio bene come sempre» le risposi. Oriana, però, si ammalò sul serio. Nel ’94, quando assunsi la direzione del Giornale, Fallaci mi telefonò per congratularsi. Tra lei e Montanelli non correva buon sangue, quindi la notizia che io fossi alla guida del quotidiano da lui fondato al posto suo la allettava alquanto. Indro e Oriana discutevano spesso, del resto, con lei era facile litigare. Anche Biagi la odiava. Il motivo era semplice: lei era più brava di lui. Fallaci era vista da tutti come una rivale formidabile. Nel periodo in cui fondai Libero il mio rapporto con Oriana divenne più intenso di prima e lei si attaccò morbosamente a me. Allora non stava affatto bene. Penso che mostrasse la sua vulnerabilità soltanto a me, eppure la dissimulava, la travestiva, perché non c’era cosa che la inorridiva di più del fare pena, tanto era il suo orgoglio. Mi chiedeva consigli, alcuni dei quali non ero in grado di darle: sui rapporti con gli editori, sui diritti d’autore, in generale, sui suoi affari. Spesso, la sera tardi, il mio cellulare suonava e difficilmente rispondevo. Ciononostante se sul display scorgevo il suo nome, pigiavo il tasto «ok» senza esitazione. Nel fine settimana, conoscendo le mie abitudini e sapendo quindi che rientravo a Bergamo, mi chiamava direttamente a casa. Non appena affondavo la forchetta negli spaghetti, con una puntualità sconcertante, l’apparecchio squillava. «Pronto, sei te, Vittorio?» domandava con tono profondo. Minimo minimo mi toccavano trenta minuti buoni di monologo, infiorato di coloratissimi toscanismi, tra cui invettive variamente distribuite a Tizio e a Caio. Mi metteva in guardia dal pericolo costituito dall’islam radicale. Mi parlava molto male di alcuni colleghi. I suoi giudizi erano folgoranti. Le sue critiche ai politici italiani, feroci. Le sue previsioni nazionali e internazionali, pessimistiche. Con me si sfogava. A un tratto, però, mi faceva intendere che si era rotta le scatole di parlare e bruscamente si congedava. «Ora mi sono stufata, me ne vado a dormire, ci ho i cancri, vaffanculo, ciao!», e metteva giù la cornetta. Finalmente potevo tornare al mio spaghetto. Ormai freddo. Tra il 2003 e il 2004 Oriana cominciò a scrivere per Libero e nel 2005 mi consegnò un pezzo meraviglioso, si trattava di un’intervista che aveva eccezionalmente concesso a un prete polacco. Era estate e per la prima volta il quotidiano da me fondato superò le 100.000 copie. Passare un suo articolo era il solito tormento, l’equivalente di votarsi al suicidio. La affidai ad Alessandro Gnocchi, che per lei assunse lo stesso ruolo che aveva avuto il povero Sandrino, ossia Cosino. Nonostante fosse sfiancante, avere a che fare con Oriana rappresentava un onore per chiunque. Un giorno mi attaccò con un pretesto che non ricordo, non le andava mai a genio niente. Da New York mi mandò una lettera carica di insulti. Fu una lite furibonda. Io feci ciò che forse non si sarebbe aspettata: le risposi a tono, dicendogliene di tutti i colori. Il fatto che l’avessi mandata al diavolo invece di allontanarla, chissà perché, l’avvicinò ancora di più a me. Non avevo reagito con odio, ma le avevo tenuto testa. Una mattina mi chiamò come se non fosse successo nulla. Era un tipetto davvero particolare. Presa dal desiderio di sistemare i conti, mi propose ancora una volta un acquisto immobiliare. Stavolta si trattava della sua casa di New York. «Oriana, come ti salta in mente? Io non parlo l’inglese, non prendo l’aereo, non mi muovo da Milano, cosa devo farci con un appartamento negli Stati Uniti?» le risposi. E lei rise di gusto. Gli ultimi suoi dodici mesi furono duri. Stava sempre peggio. Le telefonate dall’America erano brevi ma frequenti. «Ci ho tre o quattro cancri, Vittorio, non li conto nemmeno più.» Si stancava presto, aveva il fiato corto e troncava la comunicazione: «Ora ciao ché devo morire». Che idiota ero: pensavo scherzasse e non la pigliavo sul serio. A giugno 2006 squillò il cellulare. Era lei. Mi pose un problema. «Vittorio, ho bisogno del tuo aiuto. Rientro in Italia poiché voglio morire a Firenze. Prima però faccio un salto, anzi mi trascino a Milano. E lì non so dove appoggiarmi. Non ho casa e in albergo non scendo. Mostrarmi in pubblico conciata in questo modo, con i cancri che mi divorano, non mi garba. Dimmi te, che si fa?». Percepita la sua disperazione, non esitai a proporle la mia abitazione milanese. Accettò. Le feci visitare l’appartamento, che trovò di suo gradimento, salvo lamentarsi alla vista di un gradino all’ingresso della cucina. «Che ci fa qui ’sto scalino?!», esclamò sbigottita. «E ci fa! Oriana, è uno scalino che porta in cucina». «Che tu parli fiorentino ora?». «Parlo come cazzo mi pare». Ridevamo come matti, sebbene fossi incredulo e amareggiato nel vederla in quello stato. Avevo il cuore a pezzi. Sullo scalino non sorvolò, ovviamente. Fece subito comprare del nastro bianco e rosso, come quello che mettono per strada al fine di delimitare dei lavori in corso o gli incidenti, e lo appose tra gli schienali di due sedie disposte in prossimità del vano cucina. Insomma, aveva trasformato l’area in una sorta di «scena del crimine». Prima di abbandonare l’appartamento per quella settimana, dissi a Oriana che l’avrei affidata alle cure della mia governante. «Non la voglio tra i coglioni», mi rispose serafica. Andava la sua segretaria a farle qualche lavoretto o commissione. E io stesso mi recavo a trovarla ogni pomeriggio. Suonavo il campanello e, per aprire la porta, Oriana armeggiava dieci minuti. Entravo nella mia abitazione imbarazzato e camminavo in punta di piedi perché mi sentivo invadente. Tutto era in disordine. Mozziconi ovunque. Il 29 giugno, giorno del suo compleanno, le portai una bottiglia di Dom Pérignon, il suo champagne preferito. Oriana sembrava felice come una pasqua. Ne bevemmo un goccio, giusto per festeggiare la ricorrenza noi due soli. Intanto lei non aveva perso il vizio: continuava a fumare una sigaretta dietro l’altra, come oltre vent’anni prima faceva al Corriere, e la spegneva sul bracciolo del mio divano con una nonchalance disarmante, lasciandoci dei buchi. Mi dispiaceva farglielo notare. Il giorno seguente mi disse: «In questo palazzo abita la signora Trussardi? Mi piacerebbe conoscerla, perché, quando mi trovavo in Medio Oriente, mi concedevo un unico vezzo: qualche goccia di profumo del suo marchio». Luisa, mia cara amica dai tempi delle scuole elementari, organizzò un magnifico pranzo per Fallaci, la quale si vestì e si agghindò per l’occasione come una regina. Era elegantissima. Indossava un abito meraviglioso, stupendi gioielli, i tacchi, in un attimo sembrava quasi avesse cancellato e dimenticato i segni dell’odiosa malattia. Come era solita fare, Oriana non mangiò quasi nulla, ma era gioiosa. Quando la accompagnai a casa, mi disse: «Vittorio, c’ho un altro desiderio: vorrei andare in salumeria». L’indomani andai a prenderla e la condussi tenendola al braccio, passino dopo passino, a una salumeria vicina, dove comprò felice quattro cosette. Poi la misi sul divano dicendole: «Oriana, ora devo correre in redazione». E lei ridendo: «Ho lavorato tutta la vita, io, e ora devo stare a sentire te che ti dai delle arie perché lavori due giorni». Si trattenne a Milano circa una settimana. Sbrigò le sue faccende e partì alla volta di Firenze con un’auto e un autista che le procurai io su sua richiesta. Fu un viaggio stancante persino per me che non lo feci. Durante il tragitto Oriana mi chiamò più volte lamentandosi del fatto che in macchina facesse troppo caldo e che la colpa fosse di colui che guidava, poi del fatto che facesse troppo freddo. Io, da lontano, cercavo di accomodare tutto pregando l’autista di assecondare le richieste di Oriana senza fiatare. Dopo qualche mese mi ammalai di una prostatite acuta, rischiai addirittura la vita e venni ricoverato d’urgenza in ospedale per una decina di giorni, durante i quali Oriana provò a contattarmi poiché desiderava parlarmi di qualcosa. Chiamò anche a casa mia, a Bergamo. «Ho bisogno di sentire Vittorio, Enoe, devo dirgli delle cose. Come si fa? Io ci ho pure da morire ora», sospirò affranta a mia moglie. Non seppi mai cosa volesse annunciarmi Oriana. Ho cercato in questi anni di sciogliere questo dubbio che mi pesa dentro e mi sono convinto che forse mi volesse raccomandare di continuare la battaglia contro l’estremismo islamico. Erano trascorsi tre o quattro mesi dalla scomparsa della mia amata amica, quando un mattino, verso le 4, feci un sogno, che sembrava terribilmente realistico. Mi trovavo in un ascensore di legno lucido, bello ed elegante. Non provavo quel disagio che di solito avverto quando sono in uno spazio tanto angusto. Mi sentivo sereno. Arrivato al piano che dovevo raggiungere, si spalancò la porta e mi ritrovai in un’ampia stanza, non molto luminosa ma piuttosto accogliente, sebbene fosse vuota. C’era solo una piscina, l’acqua era azzurra, limpida. Uscendo dal locale sentii una voce che cantava meravigliosamente. Era Oriana, che mi veniva incontro sorridente. Era giovane. Fresca. «Oriana, ma come canti bene, per quale motivo non mi hai mai svelato questa tua dote?», le chiesi sorpreso. In quel momento mi svegliai. Ancora disorientato ed emozionato, mi misi seduto sul mio letto, poggiando le spalle sulla testiera. «Pensa che sogno del cazzo!», mormorai tra me e me. E all’improvviso udii nitida una voce, era rauca come quella di Oriana: «Vittorio, Vittorio, ti devo parlare». Sì, era proprio lei. E continuava a ripetere il mio nome. «Oriana, vattene, ho paura», urlai disperato. E fu silenzio. Di lì a qualche tempo presenziai a un convegno su di lei. C’era anche monsignor Rino Fisichella, che le era stato vicino negli ultimi dolorosi giorni. Il prelato mi consegnò un sacchetto di plastica: «Oriana mi ha raccomandato tanto di restituirti questa roba». Il sacchetto conteneva un bicchiere e un cucchiaino, che la giornalista aveva prelevato dalla mia credenza prima di raggiungere Firenze. Le erano serviti per assumere un medicinale antidolorifico durante il viaggio. Monsignor Fisichella mi precisò che Fallaci era preoccupatissima di non farcela a restituirmeli. Così aveva incaricato lui. Nulla doveva restare in sospeso. Questa è la mia Oriana.