il Giornale, 17 settembre 2023
Storia delle piattaforme (e della Pennsylvania)
Keystone State, la chiamano proprio così, come la pietra che i costruttori hanno scartato diventata poi pietra d’angolo. È il destino della Pennsylvania. Uno Stato privato resta sempre un po’ un’anomalia. Qualcuno dirà che è un’utopia libertaria, altri lo bolleranno come un inferno megalomane e egoista. La storia della Pennsylvania è invece una lezione che arriva fino a qui dal 1680. Tutto comincia con i debiti di un re. È Carlo III di Inghilterra che per finanziare le sue guerre chiese soldi a un ammiraglio. L’idea era di restituirli dopo la morte del creditore. Non conosceva però la testardaggine del figlio. William Penn junior era un predicatore quacchero con una certa abilità nel mettersi nei guai. Era un sognatore, un idealista, un teologo, una testa calda. Tutta una vita a litigare con il padre, ma ne ottiene il perdono prima che sia troppo tardi. Quando il vecchio muore ne eredita anche i crediti. Va dal re e in qualche modo lo convince a saldare il debito. Il sovrano non caccia monete d’oro, ma si sbarazza di una larga fetta di terra tra i grandi laghi e l’oceano Atlantico, lì dove i monti Appalachi prendono una dolcezza collinare. Non sarebbe neppure roba sua, perché quel territorio non è affatto disabitato, ma ci vivono gli irochesi, i Delaware e gli Shawnee. Tutti popoli che si sono arresi fidandosi dell’uomo bianco. Fatto sta che William Penn, figlio ribelle di Sir William Penn, diventa proprietario di uno Stato che prima pensa di chiamare, latineggiando, Sylvania e poi ci mette davanti Penn. Pennsylvania, più o meno i «boschi di Penn». Penn immagina uno Stato senza eserciti e poliziotti. Ci ha fatto i conti in patria e gli hanno reso la vita difficile. È l’amore che muove il mondo. Chiama la sua capitale Philadelphia. È la città dell’amore fraterno. È quacchero e fa della tolleranza religiosa la sua bandiera. Tutto questo vale sulla carta. Quando però Penn si ritrova a governare il suo Stato privato, con coloni che arrivano dall’Irlanda, dalla Polonia, dalla Germania, dalla Russia e non sono tutti tranquilli e tolleranti, ma spesso piuttosto litigiosi, si arrende non solo alla legge, ma pure al suo braccio armato. E comincia a scrivere, cinguettando, cose di questo tipo. «La saggezza delle nazioni risiede nei loro proverbi, che sono brevi e concisi». «Lasciate che la gente creda di governare e sarà governata». «Il giusto è giusto, anche se tutti gli sono contrari; e lo sbagliato è sbagliato, anche se tutti sono per esso». La vecchia storia della Pennsylvania, o della Virginia acquistata e battezzata da una società per azioni, racconta quello che sta accadendo agli Stati privati del XXI secolo. Le dinamiche sono alla fine più o meno le stesse. Solo che questi Stati si chiamano Google, Facebook, Twitter, Instagram e tutte le mega piattaforme del metaverso. Altri invece come Amazon o Uber sono i principati dei servizi globali e si snodano seguendo logaritmi e intelligenza artificiale. È tutto ciò che Vili Lehdonvirta, sociologo oxfordiano di grande profondità, racconta in Cloud Empires (Einaudi). È l’avventura di come le piattaforme digitali stanno superando gli Stati nazionali. Ora queste piattaforme globali private non solo influenzano, fino ai più remoti neuroni, abitudini, coscienze, modi di pensare e vedere il mondo, ma sono piazze, agorà, res publica, producono immaginario e cultura, tanto da avere bilanci che non hanno nulla da invidiare agli Stati nazione e battono moneta, coinvolgono un territorio largo come il globo e legiferano. Fanno e sono la legge. Qualcuno ricorda l’editto di Zuckerberg di qualche anno fa. Nel regno di Facebook i banditi potranno ricorrere alla giustizia del re. I banditi sono quelli messi al bando dagli algoritmi o dalle segnalazioni dei «vicini di post», quelli esiliati per pensieri, parole, opere e omissioni. Tutti i cattivi hanno una seconda possibilità. Ci sarà una sorta di corte di appello, più o meno indipendente, a cui rivolgersi se siete stati sospesi o cancellati. I giudici all’inizio saranno undici, poi nell’arco di un anno l’Oversight board, come lo chiama Zuckerberg, sarà di quaranta persone. La carica dura tre anni. Chi li sceglie? Il re, naturalmente, che li stipendierà. Il regno di Zuckerberg avrà una common law, non una Costituzione scritta, ma sentenze che segnano una rotta e orientano principi e valori. I «cittadini» non lo sono per nascita ma per scelta. Si iscrivono e rinunciano con un contratto, che in genere nessuno legge, a una serie di diritti e prerogative. C’è la più classica cessione di potere in favore di un organismo più grande. In cambio di cosa? Di un’idea di socialità. La beffa è che vendi la tua identità, quello che sei, i tuoi dati più rilevanti, tutte le informazioni che ti riguardano, solo per stare in piazza. Racconti tutto di te: cosa mangi, come spendi i tuoi soldi, chi ami, come stai, se sei sano o malato, dove vai in vacanza e i guai che hai sul lavoro, chi sono e come stanno i tuoi figli, padri, madri, fratelli, parenti fino al terzo grado. È uno Stato virtuale che sa tutto dei propri sudditi. Non ha bisogno di poliziotti, perché i cittadini sono ben contenti di mettersi a nudo. In qualche modo ci siamo venduti l’anima. Tutto questo non era previsto. Quelli che sono sbarcati nel virtuale con Space Invaders e hanno sognato il metaverso a metà degli anni ’90 pensavano, allora, di aver scoperto la frontiera, una terra libera e anarchica dove fuggire dalla tirannia burocratica degli Stati. Sognavano, sognavamo, l’impossibile. Ora ci siamo accorti che gli irochesi e gli Shawnee eravamo noi. Chi ha costruito le piattaforme spesso era in buona fede e cercava davvero la terra della libertà, come Travis Kalanick, fondatore di Uber, innamorato dei romanzi e delle teorie di Ayn Rand. Scriveva: «Siamo in una campagna politica. Il candidato è Uber e l’avversario è uno stronzo di nome Tassì. Non piace a nessuno, ma è così inserito nei meccanismi e nel tessuto politico che molti gli devono dei favori». La rete avrebbe dovuto liberare l’individuo dalle sovrastrutture della società, ma ci si è ritrovati a navigare in un mare di leviatani. Scrive Lehdonvirta. «Pionieri come Barlow e Omidyar pensavano che internet si potesse usare per risolvere qualsiasi problema di ordine sociale con un metodo innovativo basato sull’autoimposizione di individui e comunità». È Stirner e Bakunin. È l’eterna illusione dell’anarchia. «Alla fine tutti i pionieri delle megalopoli virtuali sono sopravvissuti togliendo libertà. Persino Ross Ulbricht, fondatore libertario del mercato di stupefacenti Silk Road, alla fine scoprì di non poter sostenere un mercato di una certa entità senza ricorrere alla coercizione». Il paradosso è che i mercanti rinnegati si comportano come signori feudali. Non sono in grado di gestire le masse e allora, più o meno a malincuore, usano la forza bruta. Lehdonvirta invoca una «rivoluzione borghese». La sua scommessa è la stessa delle città libere del tardo medioevo. I comuni italiani che si ribellano ai grandi feudi di un impero in decadenza.