il Giornale, 17 settembre 2023
I dittatori a tavola
Il piatto preferito da Saddam Hussein era la «zuppa di pesce alla ladrona», chiamata così perché a Tikrit, il distretto dove il dittatore era nato, era il cibo dei malavitosi. Ci voleva un pesce molto grasso, il lucio-barbus oppure la carpa, tagliato a cubetti e infarinato, pomodori, albicocche secche, mandorle, il tutto a strati, una manciata di uva sultanina, un pizzico di curcuma come tocco finale. Era esigente Saddam e se ciò che veniva portato in tavola non era di suo gradimento, o più semplicemente lui era di cattivo umore, multava il cuoco: cinquanta dinari era il risarcimento. Era però anche generoso: ogni anno i sei chef che componevano la sua «brigata» personale, ricevevano una macchina nuova, le loro divise di cucina, così come gli abiti indossati per accompagnarlo nei suoi viaggi all’estero, erano su misura e fatti in Italia. A suo modo era anche spiritoso. Durante un giro in barca sul fiume Tigri si mise lui ai fornelli, a preparare la kofta, ovvero la grigliata di carne di manzo e agnello tritata e insaporita con pomodoro fresco e prezzemolo. Siccome quel giorno aveva ricevuto del tabasco in regalo irrorò abbondantemente i piatti degli ospiti e sulla barca ci fu tutto un correre frenetico in cerca di acqua, che non c’era, perché si pasteggiava a whisky. Quel giorno Saddam si sbellicò dalle risate...
Con Enver Hoxha, il dittatore albanese, i compiti di un cuoco erano più semplici, ma anche più complicati. Era diabetico, Hoxha, non poteva superare le mille e duecento calorie, era alto più di un metro e ottanta ed era sempre affamato. «Devi essere creativo» aveva detto al suo cuoco personale e questi cercava di rimediare con spezie e decorazioni: una mela intagliata con i semi a mo’ di occhi e servita sotto forma di uccello, un maialino arrosto, per il compleanno di uno dei suoi figli, presentato su un vassoio con un cappello sulla testa e una sigaretta accesa in bocca... Gli piaceva molto l’insalata con le castagne arrostite che aveva assaggiato per la prima volta in Francia, quando era ancora un semplice studente, ma per i tempi lunghi dell’economia comunista albanese quando il carico di castagne arrivò nelle dispense presidenziali era completamente ammuffito. Il suo chef sostituì le castagne con le nocciole, le sgusciò, le tagliò a metà, aggiunse l’olio d’oliva e le fece bollire nel latte, decorò l’insalata con petali di rosa. Hoxha la trovò squisita. Più complicato fu quando chiese dell’uva senza semi, anche questa assaggiata per la prima volta in Francia. Era però un tipo di uva sconosciuto in Albania e allora il cuoco si mise seduto e, chicco dopo chicco, cominciò a levare i semi a uno a uno...
Come sfamare un dittatore, di Witold Szablowski (Keller editore, pagg. 311, euro 18,50, traduzione di Marzena Borejczuk), è un libro affascinante, nonché un perfetto compendio di come dovrebbe essere il lavoro di un giornalista. A scriverlo, il suo autore ci ha messo quattro anni girando su e giù per il mondo, Kenya e Uganda in Africa, Baghdad e Erbil nell’Iraq mediorientale, Anlong Weng, Phnom Penh e Ratanakiri in Cambogia, l’Avana e Santiago de Cuba nell’America centrale, Tirana e Valona per l’Albania e quindi l’Europa... Ha rintracciato i cuochi personali di cinque dittatori del XX secolo, i già ricordati Hussein e Hoxha, Idi Amin, Fidel Castro, Pol Pot. Davanti a zuppe agrodolci, pilaf di capretto, pesci in salsa di mango, molto rum e qualche partita di ramino ne ha ascoltato le storie e raccontato l’assurdità di un lavoro dove un errore può costarti la vita, ma un piatto cucinato bene ne può salvarne molte altre. Quarantenne, polacco, Szablowski fa idealmente parte di quel giornalismo che ha nel suo connazionale Ryszard Kapuscinski il suo punto di riferimento: è curioso, infaticabile, vuole capire, sa che è troppo facile giudicare standosene al caldo dei propri pregiudizi. Ha alle spalle anche quel tanto di vita avventurosa che in seguito permette a un giornalista di adattarsi quando le intemperie della professione lo mettono alla prova: ventenne fresco di laurea, dalla Polonia se n’è andato in Danimarca, dove, come sguattero in un ristorante pseudo-messicano (in cucina c’erano dei curdi iracheni), lavorando in nero guadagnava in quattro giorni quanto la madre insegnante prendeva al mese in Polonia... Da lavapiatti è poi passato ad aiuto cuoco, in un ristorantino di Norrebrogade, una delle vie chic di Copenaghen, gestito da un ex chef di navi mercantili, cresciuto a Chicago, di padre polacco e madre cubana, che però non parlava né polacco né spagnolo, tanto meno danese, divertente fuori dal lavoro, iracondo ai fornelli. È durata un pugno di mesi, poi è passato a guidare un risciò scarrozzando i turisti per le strade della capitale. Tornato finalmente in Polonia ha abbracciato il giornalismo che, come è universalmente noto, è sempre meglio che lavorare, ma la cucina gli è rimasta nel cuore: «Non mi sono mai dimenticato di quanto possono essere affascinanti i cuochi. Sono poeti, fisici, medici, psicologi e matematici. Tutto questo in una sola persona. La maggior parte di loro ha vissuto una vita fuori del comune. È un mestiere che logora».
Costruito in maniera intelligente, Come sfamare un dittatore è un po’ conoscere la storia del XX secolo visto dalla porta di servizio delle cucine e siccome nel XXI secolo ci sono ben quarantanove Stati governati da un uomo solo al comando, si tratta di conoscenze preziose e da mettere a frutto. Il libro permette anche di capire «come si tira avanti in tempi difficili. Come si nutre uno svitato. Come gli si fa da madre. E addirittura come una scoreggia emessa al momento giusto possa salvare la vita a una decina di persone». Il peto in questione è quello del figlioletto di Idi Amin, Moser. Quel giorno il cuoco del padre, Otonde Odere, aveva preparato un pilaf molto dolce con l’uvetta e una spolverata di cannella e il ragazzino, che aveva ereditato lo smodato appetito paterno, se n’era rimpinzato fino quasi a scoppiare: risultato, un tremendo mal di pancia... «Veleno!» aveva urlato il dittatore: «Se gli succede qualcosa, vi ammazzo tutti» aveva poi precisato. Odere era sgattaiolato via portandosi appresso il bambino e in cerca di un medico. A forza di comprimergli la pancia, Moser aveva cominciato ad emettere gas intestinali. «Mi sento meglio» aveva poi esclamato. Quando era stata data al telefono la notizia al dittatore, questi aveva abbassato la pistola già puntata sulle teste del personale di servizio...
Il capitolo più agghiacciante del libro è quello che riguarda Pol Pot, «fratello materasso» il suo nome di battaglia, date le sue virtù conciliatrici... Young Moeun, che era la sua cuoca, ricorda di essere rimasta «ammaliata dal suo sorriso»... Curiosamente, nel 1969 i bombardamenti americani sulla Cambogia avevano come nome in codice «Menu». Prevedevano lanci successivi chiamati «Colazione», «Lunch», «Pranzo», «Cena» e, per finire, «Dessert». Nell’insieme, 110mila tonnellate di bombe che, aggiunte ad altre operazioni similari, furono il triplo di quelle buttate sul Giappone nella Seconda guerra mondiale. Teoricamente, avrebbero dovuto indebolire i vietnamiti, che lì in Cambogia avevano alcuni campi base. Quando nel 1973 il Congresso americano ne ordinò la cessazione, i Khmer rossi da 2mila di quattro anni prima, erano arrivati a cinquantamila e stavano marciando su Phnom Penh. Preso il potere, cominciarono loro a massacrare i fratelli cambogiani... A Pol Pot piaceva la zuppa di pollo nero e melone, ma si limitava a berne il brodo filtrato. Il capitolo più esilarante, pur nella sua drammaticità, riguarda invece Fidel Castro e Cuba. Il suo cuoco si chiamava Erasmo Hernandez, che adesso ha un suo ristorante, il Mama Ines. Nel suo racconto, Castro pontificava su tutto, da come costruire il comunismo a come inseminare le vacche a come cuocere le aragoste e il pargo rojo, il dentice del nord. Sotto il suo regime i cubani si industriarono a mangiare cotolette di pompelmo, a bere acqua zuccherata a pranzo, a fare la ropa vieja, la zuppa di manzo e verdura, usando le bucce di banana al posto della carne. Poi scomparvero anche i pompelmi e le banane. Szablowski riassume il fallimento di quella rivoluzione con una barzelletta, iniziata a circolare quando l’Urss implose, Mosca chiuse il rubinetto degli aiuti e si capì che «senza quei soldi l’isola non andava da nessuna parte». Sui cartelli dello zoo dell’Avana, la scritta «Non dare da mangiare agli animali» venne prima sostituita con quella «Non rubare il cibo agli animali», poi con «Non mangiare gli animali». Infine, venne chiuso lo zoo.