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 2023  settembre 17 Domenica calendario

Analisi del Risorgimento

Per definire l’ambito cronologico del Risorgimento italiano in quanto processo di unificazione nazionale si possono adottare diversi criteri. È ragionevole indicare nel «Regno italico» creato da Napoleone – che peraltro non comprendeva il Regno di Napoli e che comportava l’inclusione nell’Impero francese del Dipartimento del Tevere e del Dipartimento del Piemonte – una prima forma di riunificazione del nostro Paese. Era strettamente connessa alla spinta innovatrice dovuta alla Rivoluzione francese: la Repubblica Cisalpina e la invenzione di un Tricolore modellato su quello della Repubblica francese ne avevano costituito un antefatto. È altrettanto legittimo assumere un inizio più tardivo: l’insorgere cioè di movimenti patriottico-liberali volti a mettere in discussione l’assetto del nostro Paese stabilito dal Congresso di Vienna dopo la definitiva sconfitta di Napoleone (giugno 1815) ed il crollo della costruzione sua incentrata sul tentativo di egemonia francese sull’Europa occidentale. Costruzione di cui il Regno italico (il cui sovrano era Napoleone stesso) costituiva un tassello.
Si avviò di certo allora un susseguirsi di crisi, per lo più sincroniche e sintoniche rispetto a più vaste crisi che scuotevano in quasi tutta l’Europa l’ordine instaurato a Vienna e tutelato da principi e modi di azione (preventiva e repressiva) sanciti dalla «Santa Alleanza». Essa si era arrogata un diritto di ingerenza fondato sulla ferma volontà di impedire il ritorno della «Rivoluzione», dei suoi metodi e dei propositi, che avevano squassato l’Europa per un quarto di secolo (1789-1815). In realtà, dopo il crollo del sistema egemonico creato dal Bonaparte, le idee giacobine non si sono più riproposte uguali, come immaginavano e paventavano i sovrani e i ministri che avevano stabilito nel 1815 «il nuovo ordine» europeo. Dalla sconfitta tanto del giacobinismo che del bonapartismo e soprattutto dalle trasformazioni sociali in atto, nascevano nuovi soggetti sociali aspiranti ad un ruolo dirigente, nuove parole mobilitanti (non più «internazionalistiche» come quelle della Rivoluzione e dell’Impero), nuove realtà economiche.
Perciò la leadership del nostro Risorgimento fu nelle mani di élite borghesi – non solo intellettuali – delle aree più avanzate del Paese. La partecipazione di masse popolari fu invece intermittente né poté esprimere programmi e uomini capaci di egemonia. Ciò non toglie che, in varie, e decisive, fasi del lungo cammino verso il (mai raggiunto del tutto) compimento dell’unificazione nazionale, il ruolo e l’intervento di consistenti masse popolari fu necessario, ancorché subalterno. Alessandro Manzoni, nell’incompiuto saggio comparativo cui attendeva alla fine della sua vita, tra il 1789 francese e il 1859 italiano, definì «rivoluzione italiana» il sommovimento statuale e istituzionale che si produsse in quell’anno in conseguenza della guerra franco-austriaca: il cui effetto fu, per l’impero d’Austria, la perdita della Lombardia e, per i Savoia, sull’onda di tale risultato, le annessioni di Toscana, Legazioni pontificie etc. al Regno di Sardegna. Non era improprio il termine «rivoluzione» per definire quel decisivo passaggio storico. È sintomatico che, in quel saggio, Manzoni lasciasse fuori della sua analisi per un verso il 1793 parigino (che appare in iscorcio) e per l’altro l’impresa garibaldina (1860), conclusasi con l’annessione al Regno di Sardegna del Regno delle Due Sicilie e con la nascita, di lì a pochi mesi, del Regno d’Italia.
Oligarchia
Nel Regno d’Italia per lungo tempo solo una quota esigua dei cittadini
ebbe diritto di voto
Con la travolgente avanzata di Garibaldi da Marsala a Napoli si era affacciata, sulla scena del «Risorgimento», la componente popolare: aveva svolto un ruolo, ma era stata (repressione ad opera di Bixio dei moti contadini) risospinta verso una condizione di subalternità. E la scelta di Garibaldi di non tener conto delle sollecitazioni mazziniane, di prendere atto dell’intervento militare organizzato in gran fretta da Cavour per «fermare Garibaldi», di cedere al «re d’Italia» quasi teatralmente, a Teano, l’appena conquistato (o liberato) Meridione d’Italia determinò per decenni la nostra storia nazionale in direzione conservatrice. Un indicatore di ciò può ritenersi la divaricazione impressionante tra gli affollati «plebisciti» che sancivano man mano le varie annessioni (fino a quella conclusiva post-Teano) e il limitatissimo diritto elettorale vigente, di elezione in elezione, tra il 1861 e il 1880. Nel 1861 hanno il diritto elettorale 418.686 cittadini, che costituiscono l’1,9% della popolazione residente. Nel 1880 si sale a 621.896 e ad una percentuale del 2,2%. Al che si aggiunga che del diritto elettorale si avvalgono – all’interno di questa minuscola élite di cittadini di pieno diritto – soltanto il 57 (massimo 59) per cento. Con la «sinistra storica» (Depretis) si arriverà, nel 1882, a due milioni di aventi diritto (7% della popolazione residente) e solo nel 1890 si arriverà ad una percentuale del 9% pur sempre con un assenteismo oscillante tra il 40 e il 50%.
Se è vero in generale che le «rivoluzioni» incominciano in modi propugnati e praticati da forze radicali e però prima o poi si assestano intorno a gruppi dirigenti moderati, questo è particolarmente vero nel caso italiano. Ed è appunto questa la cifra fondamentale del processo risorgimentale. Ognuno vede come un tale processo storico e politico condotto nel nome (spesso abusato) della «libertà» si era inverato di fatto nella libertà dei «pochi» (per adoperare un linguaggio antico). Ed è perciò ben comprensibile che da un tale processo siano discesi due fenomeni non di rado convergenti: la critica del Risorgimento per il modo della sua attuazione (critica di varia ispirazione: da Oriani, a Gobetti, a Gramsci) e il proposito di «completarlo», di sospingerlo verso altri esiti grazie al coinvolgimento di chi ne era stato tagliato fuori. La successiva storia d’Italia è tutta racchiusa nel solco di queste due linee intellettuali e pratiche: ivi compresi il trionfo postbellico del socialismo (1919), la controspinta, anch’essa in veste «rivoluzionaria», del fascismo e poi la ricostruzione del Paese dalle macerie lasciateci dal fascismo (1946: Repubblica e Costituzione). In un processo tuttora incompiuto.