Tuttolibri, 16 settembre 2023
Perché un certo racconto di Silvio D’Arzo è bello
Credo che il consenso sia quasi unanime: Casa d’altri è di gran lunga la cosa migliore che D’Arzo abbia scritto, e uno dei racconti più belli del Novecento italiano. Oggi il cosiddetto «giudizio di valore» è molto screditato: lo si accusa di elitarismo, di arroganza professorale – pare più democratico sostenere che i criteri variano a seconda dei lettori, non è bello quel che è bello ma è bello quel che piace («mi ha dato una forte emozione»). Invece è proprio di bellezza oggettiva che vorrei parlare, non di biografia o di storia della letteratura. Lascerò perdere il talento innato, visionario e favolistico; trascurerò gli influssi molto poco italiani (da James a Hemingway) che gli hanno insegnato il pudore e la reticenza dello scrivere, e pure il neorealismo più sobrio di cui nel 1949 non poteva non risentire; ometterò i riferimenti alla scabra montagna reggiana, non mi occuperò dei legami (che pure ovviamente esistono) col resto della produzione di D’Arzo, né della malinconia dovuta alla fragilità fisica e psichica, della leucemia che lo uccise a trentadue anni, l’anno dopo l’uscita del suo capolavoro. È aura che ha aleggiato intorno a Casa d’altri fin da allora, aggiungendo sorpresa e commozione; ma qui vorrei concentrarmi su che cosa rende bello un testo letterario indipendentemente da tutte queste cose.Ci sono volumi sull’argomento, naturalmente: i criteri di volta in volta sottolineati sono la coerenza interna, lo scarto rispetto alla norma, la qualità della materia verbale, l’ampiezza d’orizzonte eccetera; io qui limiterò il discorso a un criterio a cui sono sempre stato molto affezionato e che mi sono abituato a chiamare «spessore». Anzi, a un solo elemento dello spessore, quello per cui un testo arriva a dire più cose di quante l’autore sapesse di averci messo dentro; un livello ulteriore, una intercapedine (o un basamento) di inconsapevolezza.Che cosa sapeva di averci messo, D’Arzo? La storia di due solitudini (specchio della sua), di un prete assurdo e di una vecchia bizzarramente logica; un confronto dostoevskiano tra due anime e la critica della religione quando diventa routine; la povertà quasi bestiale dei suoi monti e l’alienazione esistenziale per cui ci si sente vivere «da pigionanti su questa terra»; il mondo come «casa d’altri» e le parole fruste della consolazione come «cose d’altri»; un realismo minuzioso basato sull’eterna ripetizione di pochi miseri gesti ma anche la poesia dell’iterazione a contatto con la semplicità della natura; un giovane nato vecchio che per delicatezza ha paura di vivere e un’esile trama capitatagli tra capo e collo, che miracolosamente riassume tanti temi e gli consente di proiettare se stesso nel dopoguerra impegnato facendo l’unica cosa che gli importa, scrivere. Forse, non ha capito che stava raccontando un rapporto d’amore – di amore erotico intendo, nella forma che per lui era possibile: una sensualità fatta di immaginazione, di repressione e di frustrazione, di infinita e scabra dolcezza.Vorrei dimostrare che Casa d’altri contiene (inconsapevolmente, forse) i tratti formali del tradizionale racconto amoroso. E cominciamo.Il primo incontro è segnato da un incidente casuale: «un sasso scivolò giù, fino in acqua, ma la vecchia nemmeno s’accorse» – per ora inavvertito dall’amata, il sasso che cade in acqua diventerà più tardi un «vero segnale d’intesa: un messaggio con tutte le regole», paragonato addirittura a un «biglietto». Ma fin dall’inizio l’amata ha caratteri eccezionali: nel paesaggio immobile e silenzioso lei è «l’unica cosa viva». È preannunciata, nell’ouverture «montanara», da un suo multiplo solo apparentemente distratto («se vi affacciate un momento in istrada, tutt’al più riuscirete a trovare una vecchia a soffiar sul fornello. Sempre che abbiate fortuna... O una capra») – evento comune quindi, ma l’amata è diversa, «non è certo di qui», abita ai margini del paese come una strega o una baba jaga (una «Befana» scappa detto al prete in un infelice tentativo di alleggerimento); lo scontro emotivo che ingaggerà con lei sarà per l’amante (cioè per il prete) «un’altra lingua», sconosciuta. Per aver sue notizie regala due pelli di coniglio a un ragazzo, ma arriva a sapere quel che vuole solo quando gliene regalerà una terza (il tre è il numero magico di ogni fiaba). La capra di provenienza innaturale (vinta a una lotteria in parrocchia), sua indivisibile scorta, può assomigliarsi alle «compagne» nelle apparizioni stilnoviste (Giovanna per Beatrice); ma la capra è anche animale diabolico, e dal confronto con la vita della capra nascerà la richiesta decisiva dell’amata all’amante.Il secondo incontro è all’insegna del tremore e marca la contraddizione d’amore, la paura mista a desiderio («A neanche due passi dall’argine mi auguravo di non trovarcela più: ma una sera che lei cambiò posto e sul momento non riuscivo a vederla, fui lì lì per gridarle qualcosa»). L’amato avverte un sottile sadismo nel cercarla continuamente («mi sarebbe piaciuto poter farle anche un po’ male»), se ne spaventa e vorrebbe lasciarla perdere, ma «il fatto è che era ormai troppo tardi». Lei conta già per lui più del resto del mondo: «un paese che brucia è soltanto un paese che brucia, e una guerra soltanto una guerra, e così terremoto e diluvio ma la vecchia là in fondo al canale era proprio qualcosa di più». Comincia a identificarla con nomignoli privati: la matta, la signora, o anche soltanto quella o lei (in corsivo). Il bisogno di verificare ogni sera che lei sia là, a sciacquare i poveri panni al fiume, diventa ossessivo («mai fatto con gli altri così»); romanticamente, tutta la quête è illuminata dalla luna, come sarà nei loro incontri decisivi. Spaesamento e ineluttabilità: sentimenti che inducono un po’ di vergogna e che portano a un’altra casella dell’archetipo, la dissimulazione d’amore. La prima volta che lei va a trovarlo in parrocchia, e lui manda a casa in fretta i ragazzi dell’oratorio perché «non gli importa più di nient’altro», mente alla perpetua che lo fissa maliziosa («le ho detto io di passare di qua»). Durante il loro primo dialogo, lei accetta una metafora dell’amante e lui commenta compiaciuto «come se usare le mie stesse parole fosse bere al mio stesso bicchiere». Tra i due si è instaurato un timido accenno di confidenza, da quel momento l’amante parlerà dell’amata usando il possessivo («la mia vecchia»).Né manca un altro elemento tipico, l’ironia tragica: che cos’altro è la canzonatura dei ragazzi sull’equivoco del matrimonio, e la risposta di lui quando la difende («adesso arriva anche lo sposo», alludendo a sé stesso)? Lui ci prova a giocare la carta dell’ironia, ma il pensiero fisso non se ne va; lei si tira indietro, lui si ostina («e lasciarla andare così era più di quel che potessi permettermi»). La insegue fuori dalla canonica, la guarda andar via e i propri sensi (altro tassello morfologico dell’innamoramento tradizionale) sono acuiti, ogni minimo segno dell’amata è tesaurizzato («Alla curva scomparve subito lei: e poi, dopo un po’, la sua ombra; ma il rumore dei tacchi mi arrivò ancora per qualche minuto»). Non stupisce che l’amante si senta ringiovanito, che si senta «triste come un ragazzo», che creda di aver ancora diciotto anni e pensi a lei come a «una bambina». Lui vorrebbe dimenticare («spolveriamoci il cuore e non pensiamoci più») ma non ce la fa; finché finalmente lei, dopo avergli imposto «quel po’ d’anticamera», gli fissa un vero e proprio appuntamento al fiume. È il sasso lasciato cadere in acqua intenzionalmente – lei gioca di civetteria, si nasconde per farsi trovare. Nasce una specie di rito – «arrivavo lì sopra l’argine la salutavo, mi salutava, e via a casa»; è il motivo del saluto, o «della salute» di cui si parla nella Vita nova.Ormai il legame è fissato: sono le schermaglie di qualcosa che ormai deve accadere. Il prete elabora le difese razionali, si convince che l’incontro con la vecchia sia l’occasione per adempiere finalmente ai propri doveri profondi («se il tuo mestiere è interessarti di tutti, comincia intanto a interessarti di uno»). In realtà è solo la scusa accettabile per fare quel che la storia d’amore formalmente esige: l’amante rompe gli indugi e decide di andare lui alla casa dell’amata, a tentare la conquista. Ci va infatti, la vede (anzi prima vede la capra), lei sta filando come un’ombrosa Parca, vede lui e scappa, si ritira in casa; ma prima, mentre il prete intraprendeva il viaggio verso di lei, lei era stata in canonica a lasciargli una lettera – sono i contrattempi alla Marivaux, i giochi dell’amore e del caso. Il prete sessantenne si comporta ormai come un giovanotto impaziente, liquida in fretta come non aveva mai fatto i vecchi del Maggio e le bigotte del pellegrinaggio a Loreto, si preoccupa che il tempo non diventi troppo brutto per impedire alla vecchia di farsi trovare all’appuntamento; l’ansia rispetto alle condizioni atmosferiche è quel che di assoluto ogni innamorato vede nelle circostanze dell’amore, sono patti che si decidono in cielo.Il caso, ancora una volta, lo favorisce: dei muli carichi di farina hanno rovesciato il loro carico, la vecchia corre (come tutti gli altri del paese) a raccattare la farina sparsa al suolo. È notte, c’è la luna, lui riesce ad accompagnarla a casa, lei non si nega più; il lettore capisce che siamo arrivati al momento culminante, che ora il qualcosa accadrà. L’amante sa che la preda è difficile perché suprema («Quella vecchia signora a suo modo era proprio invincibile: era indifferente, ostinata e mansueta e mille altre cose di più che neanch’io saprei dire»), ma non può fare altro che incalzarla («ammetterete che dura da un po’ troppo»). Lo stile ricorre al classicismo come formazione di difesa ma anche come segnale di attesa cosmica: «Adesso, sulla strada di monte, per le siepi e le scarpate d’intorno e i calanchi ed i pascoli era tutto silenzio, e già dormivano gli uccelli e le rane ed ogni altra creatura». I due amanti si trovano definitivamente di fronte, ogni rinvio è impossibile; le attenuazioni ironiche sfumano via («Ecco qui casa mia...», «La conosco, sono venuto a farci una serenata cinque o sei giorni fa, verso sera»); l’incontro sarà all’ombra della morte («tutti e due abbiamo già un piede di là: e così certe cose si possono anche dire»), ma la proposta di unione è chiarissima: «in due si cerca meglio».E il culmine arriva. Ancora una dilazione, che vorrebbe essere tutta sociale ma grazie a Leopardi e al suo pastore errante diventa universale: «Io ho una capra che porto sempre con me: e la mia vita è quella che fa lei, tale e quale. Viene in fondo alla valle, torna su a mezzogiorno, si ferma davanti al fosso con me, e poi la porto al canale, e quando vado a dormire va a dormire anche lei». La capra-compagna, la capra-controfigura le fornisce l’aiuto espressivo per porre la domanda fondamentale, perché la differenza tra la capra e lei è che la capra vive al massimo vent’anni, «finisce più presto». Il sintomo più chiaro del sottotesto erotico coincide con l’orgasmo di commozione del lettore; prima dell’estrema sincerità la vecchia dice «Ma allora voi vi voltate da un’altra parte» e lui ubbidisce: «mi voltai verso il muro, come quando qualcuno si sveste». Al posto del congiungimento degli amanti c’è la richiesta di autorizzazione al suicidio: «Se in qualche caso speciale senza fare dispetto a nessuno, qualcuno un po’ prima». Poi lei passa tranquillamente dall’eufemistico al letterale: «Anche uccidersi... sì». Nessuna parola è più lecita, dopo l’amplesso verbale lei scompare dietro la porta e quella porta è un limite invalicabile, un interdetto – la tana della strega è il tunnel di tutte le rimozioni del mondo («mi sembrò proprio che quella sua tana arrivasse oltre i monti e più in là»). I due amanti non possono che morire separati: «Qualcosa era successo, una volta, e adesso era tutto finito». Le ultime righe mi ricordano, chissà perché, il finale di uno dei racconti più belli del Novecento mondiale: «Era tempo per lui di mettersi in viaggio verso occidente» dice Joyce del suo protagonista nei Morti; «è ormai ora di preparare le valigie per me e senza chiasso partir verso casa» dice qui il prete.Essere innamorato della morte, corteggiarla perché l’unico amore realizzato è la morte; forse un trentunenne non poteva volerle, queste conclusioni. Ma sempre, quando rileggo la frase ripetuta nel sottofinale («Vengono delle idee, certe volte»), sento che l’esegesi più ovvia (il prete sarebbe stato tentato di dargliela quella benedetta dispensa, avrebbe voluto dirglielo che faceva bene a suicidarsi) è insufficiente – che le «idee» suggerite dal racconto non le sa nemmeno l’autore, ed è questo che fa la bellezza del testo.