La Stampa, 15 settembre 2023
Il potere del linguaggio
Chi ha istituito le lingue? Dio, come vuole la Bibbia, creando l’uomo a sua immagine e somiglianza? La natura, fornendogli gli organi anatomici adatti alla fonazione? O la società, facendo della vita di relazione il motore per lo sviluppo della parola? In ognuno di questi casi il linguaggio rivela un rapporto essenziale con un principio istituente. Che esso sia un’istituzione, e anzi la prima di tutte, è stato sostenuto dal padre della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure. Non solo il linguaggio ha la funzione aggregante che hanno le altre istituzioni, ma fornisce loro lo strumento comunicativo con cui operare. Non esisterebbero istituzioni se non esistesse linguaggio.
Da qui una serie di somiglianze, ma anche di differenze. Come le istituzioni socio-politiche, anche il linguaggio è una prassi orientata a finalità collettive, tali da anteporre necessariamente il noi all’io. E, come esse, implica convenzioni, doveri, responsabilità comuni. Attraverso la parola gli uomini vincolano i propri comportamenti, stabiliscono le proprie priorità, dichiarano le proprie intenzioni. Certo, come dice il proverbio, verba volant. Ma, per quanto possano “volare”, le parole non si perdono. Non solo definiscono la realtà, ma spesso la determinano. Non per nulla un altro proverbio afferma che «le parole sono pietre». Il linguaggio ha un rilievo che lo rende doppiamente istituzionale. Da un lato è sempre istituito, perché nel momento in cui veniamo al mondo il sistema linguistico che adoperiamo è già operante, non siamo noi a doverlo inventare. Ma è anche istituente, nel senso che rielabora le parole che trova, dando loro significati che magari prima non avevano e ne crea di nuove. È tipico dei bambini, ma poi anche degli adulti, coniare nuove espressioni, che modificano l’esperienza individuale e collettiva. Così si può dire che, attraverso le parole, la lingua produca forme di vita differenti.
La parola non solo è adoperata all’interno delle istituzioni già esistenti – nei parlamenti, nelle scuole, nelle chiese. E ancora, nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni. Ma determina essa stessa nuovi istituti, patti, convenzioni, contratti, appelli. Così le parole da un lato informano e dall’altra dichiarano, impegnano, invitano a comportamenti che entrano nella vita di relazione, rinnovandola anche radicalmente. Si conosce il titolo di uno dei più celebri testi di filosofia del linguaggio, scritto da John Austin, Come fare cose con le parole. In esso Austin spiega che le parole non hanno solo una funzione constatativa – non si limitano a descrivere la realtà. Ne hanno anche una performativa, vale a dire capace di creare qualcosa che prima non c’era. Per esempio, dire “ti sposo” davanti a un altare o al municipio vuol dire attivare una realtà sociale prima inesistente, obbligandosi a seguirne le regole. Certo, poi si può venire meno agli impegni presi, rompere la promessa data, comportarsi diversamente. Ma ciò non toglie che tale promessa ha mutato la vita di quelle persone, creando una nuova condizione di esistenza. Lo stesso avviene in tantissimi altri casi. Quando, dopo una seduta di laurea, il presidente di commissione dichiara l’allievo laureato, questi lo diventa effettivamente, con tutte le conseguenze del caso. È questa potenza performativa, non tanto dissimile da quella attribuita dalla Bibbia a Dio, a dare alla parola un potere, una forza che altre istituzioni non hanno, consistente nella capacità di creare status, situazioni, ordini che non esistono in natura.
Il potere del linguaggio va molto aldilà di quello di ogni altra istituzione perché la parola ha la facoltà, attraverso dichiarazioni o scritture, di vincolare gli uomini ad atteggiamenti che prescindono dai loro desideri immediati. Tutti gli aggregati sociali, ma anche le forme politiche, si basano su una serie di presupposti linguistici che vengono accettati a priori da coloro che ne fanno parte. Per esempio, che un pezzo di carta sia una banconota, presuppone che tutti quelli che ne fanno uso accettino questa convenzione. Allo stesso modo le parole che un notaio certifica durante un atto di vendita diventano un vincolo per le parti, da cui non è possibile tornare indietro. Così come la dichiarazione che si rende davanti a un giudice in processo da parte di un testimone, dopo aver giurato di dire il vero, produce un effetto, positivo o negativo, per l’accusato. Tanto più ciò accade in una dichiarazione di guerra da uno Stato a un altro. Dichiarare guerra significa di fatto renderla effettiva, allo stesso modo in cui l’impegno matrimoniale vuol dire diventare sposi. Certo, si può fare la guerra anche senza dichiararla e anzi senza neanche chiamarla guerra, come sta facendo la Russia in Ucraina. Ciò non toglie che anche una guerra che rifiuta di dirsi tale si faccia anche, e forse soprattutto, con le parole, di propaganda, minaccia, giustificazione. Così come avviene per la pace, solennemente dichiarata e sottoscritta da trattati fatti anch’essi di parole.
Tuttavia il rapporto tra linguaggio ed istituzioni riguarda non solo i vincoli che stabilizzano le azioni umane, ma anche la loro trasformazione. Le parole non creano soltanto stabilità, ma anche movimento. Come si sa, la lingua è un organismo in perenne mutamento. Alcuni termini scompaiono nel tempo, mentre ne nascono continuamente di nuovi, ed altri ancora modificano il senso che avevano. Si consideri quale cambiamento radicale di significato ha subito la parola “democrazia” dalla sua origine greca a oggi. Il mutamento storico comporta sempre un mutamento linguistico. E spesso nasce da esso. La forza della parola, la sua trasformazione semantica, ha un’enorme incidenza sui fatti. Conosciamo il rilievo storico che ha avuto il rovesciamento semantico della parola “rivoluzione”. Dopo aver significato fino al XVIII secolo il movimento ripetitivo degli astri, a un certo punto, spostata nel campo politico, ha assunto un valore di segno opposto, accompagnando e favorendo le rivoluzioni moderne. —