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 2023  settembre 15 Venerdì calendario

Intervista a Brando Quilici

«Che gioia un’intervista su Folco e me. Grazie!», si emoziona spontaneo Brando Quilici all’idea di inanellare i ricordi sul padre. Alle spalle uno scorcio di Maremma, i gatti Shiboo e Meilaa acciambellati ciascuno nella propria poltrona, scirocco tra gli alberi. Regista e documentarista, nato a Buenos Aires, 65 anni. «Folco stava girando Dagli Appennini alle Ande e mamma lo aveva seguito. Il set era fuori città e io trascorsi i primi tre mesi nella nursery, grande e grosso rispetto ai neonati di pochi giorni».
Perché Folco e non papà?
«Un giorno ho cominciato a chiamarlo così se eravamo di fronte agli altri o parlavo di lui, come sto facendo con lei. Diventava papà quando dovevo ottenere qualcosa. Però alla fine era solo e sempre papà. Era diventato dolcissimo rispetto all’uomo scatenato di un tempo».

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Cambiato?
«Negli ultimi due anni era tranquillo, dormiva molto, lui così mattiniero. Forse aveva capito di avere davanti pochi mesi. Si è spento a Orvieto, nella casa di campagna. L’ultima cosa che mi disse con un filo di voce fu: bisogna fare una grande battaglia per salvare balene e balenotteri. Qualche giorno prima lo avevo trovato sul letto a osservare con attenzione una copertina di National Geographic dedicata a loro. Se ne è andato il 24 febbraio del 2018».
Brando che fa, piange, anzi singhiozza?
«Sì».
Le manca molto?
«Ho costruito una difesa, pensarlo ancora in viaggio. Da bambino lo vedevo poco, capitava che stesse via a lungo, mentre io venivo lasciato dai nonni materni, con i quali sono cresciuto. Ecco, per me lui è partito di nuovo. Bellissimo ricordarlo. Difficilissimo».
Che papà è stato?
«Era della scuola dell’ardimento».
Ardimento?
«Nel 1966 mi portò in Africa con la nave Eugenio C, della Costa. Dovevamo compierne il periplo. Avevo 8 anni. Mi lasciò su una spiaggia del Senegal, a Dakar, una giornata intera, in compagnia dei figli della sua guida locale. Arrivavo dalla scuola degli Scolopi in via Cortina d’Ampezzo, Roma. Non conoscevo nulla del mondo di fuori».
Uno choc?
«Diciamo che non ero preparato. Folco non mi aveva preavvisato della novità. Mi intortava come voleva».
E a lei dispiaceva?
«Certo che no. Però provi a immaginare cosa potrebbe provare un bambino venerato fino a 5 anni come il Dalai Lama dai nonni, viziatissimo, istruzione dai preti, che all’improvviso viene gettato nell’avventura».
Ne racconti una.
«In Madagascar mi portò a camminare lungo una spiaggia infinita. Presi un colpo di sole. Mi raccomando, non dirlo alla mamma... Devo ammettere che nella sua scuola mi sono trovato splendidamente. Insieme ne abbiamo combinate di tutti i colori».
Tipo?
«In Tanzania volle mostrarmi il frutto del baobab. Cercò di staccarlo dall’albero con una pertica di legno. Finì col prenderlo in testa. La pertica gli cascò dalle mani e per poco non mi prese. Ne abbiamo riso per anni».
Avventura, una parola che Folco detestava.
«I suoi viaggi avevano come scopo la ricerca di una popolazione, un luogo, una storia. Mai per il gusto dell’avventura fine a se stessa».
Cos’altro detestava?
«Che gli si chiedesse, ma lei è Quilici, quello dei pescecani? E, da antropologo, essere paragonato a Cousteau. Non gli piacevano quelli che si autoincensavano. Dei suoi lavori al massimo diceva, non male questa scena».
Lei ha prodotto e diretto oltre cento speciali per reti televisive di tutto il mondo, tra cui National Geographic e Discovery Channel. Ha vinto tra l’altro il Jackson Hotel in America e la Palma d’Oro ad Antibes. Ha prodotto e diretto due film. Che dice del suo lavoro?
«Non male».
Folco era apprensivo?
«Aveva il terrore che andassi in motorino. Mediammo per una moto da cross a patto che non la portassi in strada, divieto che ovviamente non rispettai. Glielo andarono a riferire. Non era un padre severo quindi me la cavai con qualche rimbrotto».
Le ha trasmesso l’amore per il mare.
«E una volta temette che il mare mi avesse inghiottito. Fu nel ’76, eravamo a Malta per filmare le scene sub del film per De Laurentiis, Orca assassina. Lui era sul flyng bridge della sua barca, Javanos. Intravide una muta nera e due pinne immergersi e, convinto che si trattasse di me, disse agli altri vediamo quanto Brando riesce a stare sotto. Un minuto, due, tre, capisce che qualcosa non va, lancia l’allarme, mi cercano per tutta la baia, lui impazzito».
Come finì?
«Quel sub aveva le bombole e non ero io che nel frattempo stavo tornando a piedi verso la baia chiedendomi cosa fosse successo, perché tutte quelle trombe suonavano. Mi abbracciò per un tempo infinito, dopo avermi assestato un pugno benevolo sul deltoide».
Una battuta tipica fra voi.
«Mimì, nonna paterna, severa e rigorosa, quando papà partiva per un viaggio gli gridava mi raccomando non sporgerti dai finestrini degli aerei. Rimase la nostra frase di commiato».
Lo ha mai odiato?
«Come un ragazzo può odiare un genitore che non trova più dentro casa. Avevo 14 anni quando si separò da mia madre, Laura Grisi. Litigavano e, se assistevo alle loro discussioni, parteggiavo per lui. Abitavamo a via Cortina d’Ampezzo e lui mi disse, da domani non mi vedrai più ma niente cambierà fra noi. Se ne andò con Anna Azan che poi diventò la sua adorata moglie, aveva quattro figli. Non ho voluto incontrarlo per due anni. Ero geloso, soffrivo. Non gliel’ho mai confessato».

Se padre e figlio fanno lo stesso lavoro, hanno un rapporto speciale?
«Unico. Mi incoraggiava, mi consigliava. Quando sono uscito dal liceo, mi sono iscritto a legge con scarso entusiasmo. Sarei diventato il classico figlio di papà. Mi chiese di aiutarlo. Il primo compito fu catalogare con etichette enormi pizze di girato. Noiosissimo. Ho cominciato al suo fianco. Il primo lavoro fu una serie di biografie di personaggi sportivi. Non mi sono più fermato. Le nostre strade si divisero».
Quanto c’è di lui nel suo primo film, Il mio amico Nanuk, uscito nel 2014, prodotto da Medusa?
«Vidi un servizio fotografico sugli orsi bianchi. Me ne innamorai. Non avevo un committente. Folco mi fece da produttore».
Nel Ragazzo e la Tigre, del 2022, sempre Medusa, ora su Amazon Prime, c’è lo zampino di papà?
«Viveva di intuizioni. Nel finale del film suggerì una semplice inquadratura addizionale, forse la più emozionante. Un potente ruggito che si libera quando la tigre, simbolo della natura ferita, vede gli umani accanto al cucciolo».
La favola finisce bene, l’uomo no.
«Ci sono voluti quasi tre anni per girare la pellicola in Nepal, anche a causa del Covid. Una delle tigri protagoniste però è di Roma, si chiama Dora. È il felino più simile al gatto, anzi sono uguali. La prima cosa che fa quando esce dalla gabbia dell’addestratore è arrotare le unghie sul tronco. Poi pensa al resto. Ogni tanto vado a trovare Dora. Appoggio il palmo sulla gabbia e lei dall’altra parte distende la zampa sulla mia mano. Tipo dammi il cinque».
Progetti?
«Racconterò in un docufilm con materiali inediti la vita di un genio complesso ed enigmatico, Enzo Ferrari. Progetto entusiasmante al quale lavoro col giornalista Pino Allievi, grande amico della famiglia. La storia di un uomo coraggioso che durante la guerra tenne testa ai nazisti di Hitler e ai fascisti di Mussolini. Il soggetto è pronto. Con Pino abbiamo incontrato il figlio Piero, braccio destro di Enzo per oltre 25 anni, vice presidente della Ferrari».