La Stampa, 15 settembre 2023
Jaime Fillol racconta il regime di Pinochet
S antiago del Cile, 1976: la finale di Coppa Davis che l’Italia non avrebbe dovuto giocare, perché «non si giocano volée/contro il boia Pinochet». Ma che poi vinse, come ha raccontato la bella serie di Domenico Procacci, Una Squadra. Jaime Fillol allora era il numero 1 del Cile, oggi è un bellissimo signore di 77 anni, dai capelli candidi e lo sguardo azzurro che lavora all’Università Catolica de Chile. In questi giorni è a Bologna al seguito della sua vecchia squadra che oggi affronta l’Italia, e della quale suo nipote Nicolás Jarry è il nuovo numero 1.
Fillol, che cosa ricorda di quella finale?
«In ballo c’era qualcosa di più del tennis, eravamo immersi in una situazione politica e sociale particolare. Il Cile voleva mostrare un volto umano al mondo, la squadra italiana sentiva la pressione di doversi esibire in un luogo tragico (l’Estadio Nacional dove gli oppositori del regime venivano torturati, ndr) e tutto questo aumentava le aspettative»
Che esperienza fu per lei, vista «dall’altra parte»?
«Chi fa il tennista si abitua fin da giovane ad affrontare situazioni difficili: stress, viaggi, competizione. E quasi sempre da solo. A me dispiace soprattutto non aver vinto…».
Pinochet fece personalmente delle pressioni?
«Ho incontrato il generale Pinochet un paio di volte, ma sempre in riunioni collettive in cui si parlava di sport. Avevamo rapporti con una sorta di direzione generale dello sport, ma non ricevemmo pressioni durante la finale»
Con che animo scese in campo in quello stadio?
«Avevamo già giocato lì nel 1974 e nel 1975, ma questa volta si trattava della finale, e non contro un paese qualunque, ma contro l’Italia che era avversa al governo cileno. Il potenziale comunicativo era importante. La mia intenzione era di trasmettere i valori dello sport, anche se sapevo che non era possibile fino in fondo: nel 1975 ero stato minacciato di morte se mi fossi recato in Svezia a giocare la semifinale».
La squadra cilena era cosciente della situazione?
«Io ero cosciente che a volte per quanto uno tenti di mantenersi distante da certe cose, rischia comunque essere strumentalizzato Cercavo di ragionare da sportivo, guardando avanti. Il passato va ricordato e studiato per evitare che si ripeta, ma bisogna concentrarsi sul futuro. Noi della squadra pensavamo di poter dare un respiro diverso al nostro paese».
Oggi tocca alla guerra all’Ucraina: Wimbledon ha fatto bene a bandire i tennisti russi e bielorussi nel 2022?
«Non bisogna fare finta che le cose brutte non esistano, ma riconoscere che c’è un problema. Ciò che accade in Ucraina è il risultato di cause che affondano nel passato. Non so se Wimbledon sia stato forzato a bandire i russi dal governo inglese, questo aprirebbe una prospettiva sui rapporti internazionali che un paese deve considerare. Eticamente, credo che l’importante sia ricordare, perdonare, e provare a costruire una vita migliore»
Adriano Panatta sostiene che la maglietta rossa indossata nella finale fu una presa di posizione politica.
«Noi tennisti sapevamo che c’erano state pressioni sulla federazione italiana per impedire la trasferta. Ma i cileni non lo sapevano. Quella maglietta rossa per il pubblico non significò niente».
L’11 settembre del 1973 il generale Pinochet instaurava la dittatura: in 50 anni come è cambiato il Cile?
«Il Cile oggi è un paese in crisi, ma non c’è tensione sociale. C’è stanchezza, disincanto verso la politica. Il paese è quasi fermo, non c’è sviluppo. Nella ricorrenza della presa del potere da parte di Pinochet è stata resa pubblica una dichiarazione, firmata da alcuni ex presidenti, in cui ci si impegna a far sì che il passato non ritorni. Vedremo se noi cileni vogliamo cambiare davvero, o se si tratta dei soliti maneggi della politica».
Dal tono lei sembra scettico.
«È un processo in evoluzione. Si sta scrivendo una nuova costituzione al posto di quella che era in vigore dai tempi della dittatura, in dicembre la voteremo. Sarà un momento chiave per capire se un cambiamento può davvero avvenire».
I giovani, come suo nipote Nicolás, che cosa sanno del passato?
«I giovani cileni non provano interesse nella storia del proprio paese. È una realtà con cui ci dobbiamo confrontare».
È un pericolo?
«Sì, ma un pericolo che esige una autocritica: se i giovani non sono interessati a questi temi, la colpa è nostra. O comunque abbiamo qualche responsabilità».
Oggi il Cile affronta di nuovo l’Italia in Coppa Davis: la considera una rivincita?
«No, è passato troppo tempo. Di quella finale mi sta a cuore di più il rapporto di amicizia che si è creato con l’Italia. Perché il tennis italiano è un insieme di sport, arte, cultura che continua a fare scuola nel mondo». —