il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2023
Biografia di Mykhailo Podolyak
L’Onu, Amnesty, la Cina, il papa. Pure la Croce rossa. Le frecce accusatorie del consigliere di Zelensky, Mykhailo Podolyak, hanno colpito, dall’inizio del conflitto, praticamente quasi tutti gli alleati di Kiev. Più che falco, mastino. Podolyak è pronto a inviare mediatiche saette velenose a chiunque inclini anche solo di un millimetro il sostegno a Kiev: lo sanno il cancelliere Scholz o Elon Musk “complice dei russi”. Ma anche Amnesty, la Croce Rossa, appunto, definite “organizzazioni fittizie che sporcano la mente con informazioni spazzatura”. O il comitato del Nobel, criticato perché ha assegnato alla russa Memorial e al bielorusso dissidente Bialiatsky il premio per la pace ex aequo con gli ucraini. O l’Onu: “Un’organizzazione per le lobby che fa guadagnare un bel po’ di soldi”. India, Cina, Turchia che hanno “un debole potenziale intellettuale”. Bergoglio, Podolyak, lo ha chiamato in diretta “filorusso”, nella stessa frase in cui asseriva che la Sede Sede è finanziata dal Cremlino (prove alle illazioni non le mostra mai). Le dichiarazioni del consigliere passano, la sua attitudine resta: lasciare l’impronta è la strategia. Podolyak è tante parole, tante foto, tanti social, pochi freni, anzi: quasi nessuno. Sembra così da sempre; prima la stessa furia verbale la riservava al partito di Zelesky: lo battezzò “raduno di piccoli meschini sfacciati”.
Nato negli anni 70 a Lvov, Podolyak dal 1989 studia Medicina in Bielorussia per capire però presto che “il giornalismo è ciò di cui voglio vivere”: lo dirà durante un’intervista parlando di quegli anni 90 trascorsi nella Minsk blindata di Lukashenko, saltando dal giornale Fm Bulvar, al Narodnaja Volja, alla Belorusskaya gazeta. Quando finisce in tribunale per aver denunciato Anatoly Tosik, capo del comitato di controllo dello Stato, la gazzetta Nasha Svaboda viene chiusa per ordine, pare, del presidente in persona. Per i suoi articoli su Vremja (il giornale che fonda l’editore di Svoboda dopo la chiusura) si ritrova sulla soglia di casa il Kgb, servizi segreti bielorussi, che lo accusano di voler destabilizzare il Paese. Viene deportato in patria nel 2004: è l’anno della rivoluzione arancione.
Di carica in carica, sempre alto in rango tra le scrivanie, fulmine delle redazioni. Dopo essere stato redattore capo della Gazetta ucraina, passa all’Obozrevatel’ del tycoon e politico ucraino Mykhailo Brodskyy, di cui diventa collaboratore. L’abusata retorica della metamorfosi dopo una profonda cesura non è legittima: con Podolyak è più la prima vita che si trasforma in una seconda, una professione che ne genera un’altra, una prima fase che alimenta la successiva. Diventa pr, esperto di “management della reputazione” dei politici. Non solo ucraini, pure russi e bielorussi. Tra i clienti Yuri Ivanyushchennko, alias Yura Yenakiyevsky: così chiamavano i media l’oligarca criminale finito poi sotto processo. Era membro del Partito delle Regioni, di quel Yanukovich che la rivoluzione di Maidan farà fuggire in Russia, proprio come un altro uomo che incrocerà la strada e il talento dell’oggi consigliere: Sergey Levochkin, ex capo dello staff del filo-russo. I media hanno provato a ricostruire i rapporti di Podolyak con Boris Lozhkin, capo dell’amministrazione presidenziale di Petro Poroshenko, ex rivale di Zelensky, e altri oligarchi; una cosa sembra certa: i politici lo cercano, è un efficacissimo polittecnolog, letteralmente “tecnologo politico”, un termine slavo che rende ben più di spin doctor o stratega mediatico.
Un lungo profilo di Podolyak nell’anno in cui comincia a marcare a uomo Zelensky lo stila il media indipendente ucraino Babel, in contatto con fonti interne che non si fanno identificare: “L’ufficio del presidente ha un nuovo consulente. Era un oppositore in Bielorussia, un giornalista filo-governativo sotto Yanukovich, ora risolve le crisi del potere”. Neppure Babel riesce a spiegare l’ascesa dello stratega nell’ufficio del capo dell’amministrazione presidenziale, di quell’Andrey Yermak che lo stesso Podolyak aveva battezzato (prima di andare a lavorare proprio per lui) “demone oscuro” che confabula alle spalle del presidente. Varca la soglia della Rada nello stesso 2020 in cui il fratello di Yermak finisce nei guai per presunta compravendita di cariche, accuse nate da filmati girati da telecamere nascoste: ai reporter che gli hanno chiesto se doveva “sbiancare” qualche biografia, Podolyak ha risposto che era una coincidenza temporale e nulla più. È con l’invasione russa che Podolyak abbandona quinte e retroscena e varca la linea d’ombra per mettere sotto i riflettori il suo volto, che diventa ben presto uno dei più noti della squadra del presidente. Partecipa ai primi falliti negoziati. Buca gli schermi di talk show e tg internazionali, spara accuse a mitraglia, conosce il gioco. Il regista è diventato protagonista.