la Repubblica, 14 settembre 2023
Come salvare una libreria
La rivoluzione digitale non ha fatto scomparire i libri di carta, che rimangono il 90 per cento dei titoli pubblicati, e nemmeno ha diminuito le vendite. Ma l’avvento del web ha messo in crisi le librerie. I libri ora si possono comprare su Amazon e sulle altre piattaforme digitali, incluse quelle degli editori, con lo sconto, facendoseli recapitare direttamente a casa. Il risultato è che, dovendo fare pure i conti con l’aumento degli affitti, le librerie sono in costante declino. Negli Stati Uniti, nel 1994, all’alba di Internet, ce n’erano 7 mila, oggi sono 2500, tre quarti delle quali, comprese molte indipendenti, cioè non appartenenti a una catena, sopravvivono vendendo anche altro: cancelleria, giocattoli, accessori, e pure bevande e cibo nei caffè o ristoranti al loro interno.
La situazione è analoga in Italia, anzi dappertutto. La vecchia libreria, santuario di cultura, punto d’incontro di lettori, ricettacolo di buone letture, è dunque destinata a scomparire? In La libreria dei sogni possibili (pubblicato da Feltrinelli, che di librerie se ne intende), Jeff Deutsch, libraio di Chicago, cerca una risposta a partire dalla propria esperienza: quella della Seminary Co-op di Chicago, una libreria “non profit”, senza fini di lucro, sostenuta da una cooperativa, diventata una delle più famose d’America. Strada facendo, il suo libro offre anche, come recita il sottotitolo, una «guida per esploratori di storie e scaffali»: un manuale, si potrebbe altrimenti chiamarlo, per innamorati di libri e di librerie.
Com’è la libreria dei suoi sogni,
Deutsch?
«È un luogo dove puoi sfogliare libri senza fretta. Puoi trovare una gran varietà di titoli. E dove senti di appartenere a una comunità di lettori. Se ci sono questi tre ingredienti, la mia libreria è ideale, grande o piccola non importa».
E il suo libraio da sogno com’è?
«È un operatore culturale, non un venditore. È animato dalla curiosità, dall’entusiasmo, dall’amore per i libri. E non vuole circondarsi soltanto di libri che riflettono i suoi gusti,bensì di libri che piacciono ai lettori, ai membri della comunità, ai frequentatori della libreria».
Aveva in mente questi modelli, quando è diventato direttore della Seminary Co-op di Chicago?
«Faccio il libraio da trent’anni, ma la Seminary, quando ne ho preso la direzione, esisteva già da mezzo secolo, con i suoi 100 mila titoli, la sua predilezione per i libri seri, che durano nel tempo e che possono avere anche un pubblico molto piccolo. Sono io che ho imparato dalla Seminary, non il contrario».
A proposito, perché si chiama Seminary?
«Perché nel 1961 fu fondata in un seminario da studenti di teologia dell’università di Chicago. Non è più in un seminario, gli studenti di teologia se ne sono andati, ma il nome è rimasto».
Nel libro lei non chiede di fermare il progresso, accetta la convivenza con le regole del mercato. Ma allora come si possono salvare le librerie?
«Coinvolgendo la comunità, responsabilizzandola. La questione è semplice: le librerie tradizionali e di qualità, nel ventunesimo secolo, non sono più grado di produrre un profitto. Ma continuano a essere socialmente utili. Ebbene, se riteniamo che delle librerie c’è bisogno, allora librai, editori, accademici e municipalità devono mettersi insieme a cercare un modello per tenerle in vita».
Il settimanale “New Yorker”, bibbia degli intellettuali americani, le rimprovera di essere un po’ reticente su questo punto: la sua libreria no profit è un modello da seguire o no?
«Sono reticente perché il mio libro vuole soltanto gettare un sasso nello stagno, aprire il dibattito: nonposseggo la risposta, dobbiamo trovarla tutti insieme. Anche con l’aiuto delNew Yorker».
Ho letto che la Seminary di Chicago, sebbene abbia aumentato del 30 per cento il fatturato negli ultimi otto anni, continua a perdere 300 mila dollari l’anno. Come restate in piedi?
«Con donazioni e campagne per raccogliere fondi. Dobbiamo solo pagare le spese, perché non distribuiamo profitti».
Vendete anche romanzi da
spiaggia, thriller, i cosiddetti bestseller commerciali?
«Sì, abbiamo una sezione anche per questo genere di libri. Non è ampia, ma ne vendiamo parecchi. Abbiamo tutto quello che i lettori ci chiedono».
Ci sono splendide librerie nel mondo, penso a Waterstone’s di Piccadilly a Londra, a certe librerie in Italia, che vendono anche cancelleria, hanno un caffè o un ristorante all’interno. Al mondo tutto cambia, perché non dovrebbero evolversi anche lelibrerie?
«Non ho niente in contrario a librerie che vogliono vendere anche quaderni, matite, giochi, candele profumate, calendari e preparare il caffè. Ma chiedo: i lettori vorrebbero una libreria che vende soltanto libri? E che paghi i suoi librai come meritano, non con i bassi salari da commesso di negozio, come fanno spesso le librerie da lei citate per potersi permettere un profitto?».
L’avvocato del diavolo direbbe che le librerie da lei descritte esistono già: si chiamano biblioteche pubbliche.
«Adoro le biblioteche, ma sono diverse dalle librerie per due ragioni. Se fanno bene il loro mestiere, non hanno sempre tutti i titoli disponibili sugli scaffali. E quei libri li prestano, mentre la libreria offre il piacere di comprare un libro, di portarselo a casa, è differente».
Mi dice quali sono le sue librerie preferite nella realtà? Comincio io, provando a indovinare: le piace City Lights, fondata dal poeta beat Lawrence Ferlinghetti a San Francisco?
«Ha indovinato in pieno».
E la Shakespeare and Company fondata da Sylvia Beach a Parigi…
«Assolutamente sì».
E quali altre le piacciono?
«Blackwell a Oxford, McNally Jackson a New York, Source a Detroit, Moe’s a Berkeley. E naturalmente Seminary Co-op a Chicago!».