la Repubblica, 14 settembre 2023
Le parole sono importanti
Paradossale: nell’era del maximum dei mezzi di comunicazione scontiamo il minimum della comprensione e sperimentiamo un impoverimento del linguaggio. Assistiamo all’eclissi di parole che ritenevamo uniche, inalterabili e insostituibili, come padre e madre, figlio e figlio, certificate prima dal sangue (génos ),poi dalla legge (nómos )e ora dalla provetta (téchne ).
Lo spaesamento è destinato ad acuirsi: la parola non tiene più dietro alla cosa, divorzia da essa e persegue una sciagurata autonomia, a fronte di una realtà sempre più smaterializzata e dematerializzata, non più popolata dalle cose. Che l’unico modo di renderle giustizia sia il silenzio del lutto, come ammoniva Beckett? Ma possiamo rinunciare a quel lógos che, insieme alla pólis,è la nostra marca distintiva? E la filologia, disciplina in verità poco fotogenica ma fidata con la sua “cura amorevole del linguaggio”, può ancora farsi carico del destino della parola e ricordarci che essa è amica del tempo, naturaliter ambigua e generatrice del pensiero? La parola è la chiave che apre la porta del tempio del tempo. Non è proprietà personale né creazione del presente ma si iscrive nella dimensione sociale e storica: prima che parlare, noi siamo parlati. La nostra lingua è eredità lontana, della Grecia e di Roma soprattutto. Quando diciamo fisica, tecnica, logica, poesia, meccanica, noi parliamo greco; quando diciamo repubblica, religione, natura, futuro, uomo, noi parliamo latino. Le tre parole più usate e abusate, in questi ultimi tempi orribili, da umili e potenti, dotti e ignoranti, cittadini e governanti sono state pandemia, vaccino e virus: greca la prima, latine le altre due. Noi abbiamo bisogno di fare pace col tempo, e la parola, carica di storia, tradizione, paternità garantisce il primato e la rivincita del tempo sullo spazio. Il tempo, aperto e dinamico – e non concluso e statico, come lo spazio – riannoda i fili del passato e dei padri con quelli del futuro e dei nascituri; della memoria col progetto.
Perché la parola, come insegnava Gorgia (VI-V sec. a. C.), il principe dei sofisti e maestro degli incantamenti verbali, può tutto, vincere anche cause manifestamente deboli, come tessere l’elogio di Elena, la donna più screditata dell’antichità? Perché essa è benedetta e maledetta, creatrice e distruttrice, simbolica e diabolica; ed è taleperché è un phàrmakon, medicina e veleno, e pertanto può sia risanare sia uccidere. Formidabile parola! Secondo Platone, nel confronto pubblico il medico soccombe di fronte al sofista, perché il popolo alla competenza e alla verità preferisce la seduzione e la consolazione.
Tucidide individuava nell’uso ingannevole e adulterato delle parole i segni premonitori della guerra del Peloponneso; per Cicerone la parola, affidata aglieloquentes, gli oratori provvisti di saggezza, salva la patria, ma affidata ai
disertissimi, i bravi parlatori, gli abili comunicatori, i demagoghi, la manda in rovina.
E la nostra parola? Ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, degradata a vocabolo e identificata col medium comunicativo, quasi dimentica del suo gemellaggio con lapólis,genera immagini e pensieri nel segno della solitudine e dell’isolamento. Così social, amputato di una semplice lettera, è il contrario e la negazione di “sociale”; lockdown, decretato per legge, è stato introiettato fino ad alimentare una cesura e cicatrice psicologica non rimarginata; smart working, un’emergenza che ora oscilla tra opportunità e opportunismo; dad, una modalità rivelatasi un vero gas nervino per i nostri ragazzi; distanziamento sociale, più che una misura di protezione individuale, diventato un grande simbolo di un mondo in cui «siamo desiderosi di immunità e non di comunità» (Massimo Cacciari). Non sarà un caso che la stessa parola cellulare indichi sia la piccola cella che, eremiti di massa, abbiamo eletto a dimora permanente sia il furgone della polizia che isola i malviventi o ritenuti tali.
Abbiamo bisogno di parole abitate dal cum, che producano pensieri civili, etici e politici: come “competere” (cum, petere ), incamminarci tutti insieme nella stessa direzione; “comunicare” (cum, munus ), condividere la nostra funzione, la nostra specificità, il nostro dono; “contestare” (cum, testis ), testimoniare collettivamente ciò che va difeso e promosso e ciò che va rifiutato e osteggiato. Abbiamo bisogno, soprattutto, di pronunciare la parola fratello: voce che rimanda non alla dimensione verticale del sangue e dell’appartenenza ma a quella orizzontale della parità e della relazione. Come, con diverso fondamento ma identica finalità e mirabile affinità, ci insegnano la cultura classica, la novità cristiana e la ragione illuministica.