La Stampa, 14 settembre 2023
Il diario dell’orrore
Ritorno in Ucraina dopo averla visitata molte volte in passato, sia prima sia dopo l’epocale Rivoluzione della Dignità, comunemente nota come Euromaidan.
In un passato non troppo remoto, facevo parte di un ristretto gruppo di esperti occidentali che periodicamente si recava a Kyiv per monitorare l’attuazione delle riforme previste dagli Accordi di Associazione siglati tra l’Unione Europea e l’Ucraina nel 2014. Queste visite non si limitavano a semplici incontri istituzionali con esponenti del governo, ma si estendevano alla società civile, alla quale rivolgevamo particolare attenzione.
Ho visto l’Ucraina governata da diversi leader, tra cui Yanukovich, Tyrchynov, Poroshenko e Zelensky. Sin dal governo temporaneo di Tyrchynov, nel 2014, l’aspirazione comune era inequivocabile: guidare l’Ucraina verso l’Europa. Questo ardente desiderio non scaturiva solo dagli alti ranghi del potere istituzionale, ma soprattutto dalla vibrante società civile, la quale, in soli dieci anni, ha organizzato ben due rivoluzioni – nel 2004 e nel 2013-2014 -, quando gli Ucraini hanno sentito di essere stati derubati del proprio sogno, il sogno di un futuro europeo che abbracciasse, prima di tutto, una forma di buona governance, libera dalla corruzione, e dall’ombra delle influenze della Russia e del suo modello di governo incentrato sul potere verticale e la repressione dei diritti civili.
Già nel 2013, agli occhi degli ucraini, la Russia era diventata una landa desolata e un luogo privo di speranza, popolato da anime che avevano abbracciato il senso di abbandono, che con la disperazione aleggiante cercava di trasformare le proprie ex-colonie in uno oscuro riflesso del suo stesso naufragio, trascinandole nell’abisso più profondo, plasmandole a propria immagine e somiglianza.
Quella della Ucraina (insieme a tutte le altre ex-colonie russe) non è altro che la cronaca di una fuga incessante dal colonizzatore. La sua Storia ha sempre tessuto le trame della resistenza all’aggressore, spesso in forma silenziosa, forse dovuta all’oppressione imposta dal dolore e dall’ingiustizia sofferti durante secoli di dominio coloniale russo. Ma la guerra, iniziata dal Cremlino nel 2014 e successivamente estesasi su vasta scala nel 2022, ha posto all’Ucraina l’imperativo di resistere con le armi in mano. Con questi pensieri ben presenti nella mia mente, nel secondo anno di guerra, parto per l’Ucraina, determinata a vedere da vicino quella tenace resistenza. Mi accingo a incontrare la società civile che da sempre mi ha affascinato per la sua indomita grinta, dedizione, e onestà intellettuale, attraverso le quali perseguiva il sogno di un domani più luminoso rispetto al grigiore del passato. Mi dirigo verso il mio incontro con molte domande: in quale stato d’animo li troverò? Saranno infiammati dall’ira, avvolti dalla tristezza, assillati dalla sofferenza, afflitti dalla disperazione, trasformati in esseri induriti dall’amarezza? O forse li troverò speranzosi, forti come mai prima, indomabili e combattenti come sono stati sempre?
Ciò che ho trovato e qua descrivo è una breve narrazione di un dolore immenso degli Ucraini causato dal terrore russo, di sofferenze indicibili, di occhi colmi di lacrime e sguardi increduli di fronte a una crudeltà ingiustificata e gratuita. Tuttavia, è anche la storia straordinaria di una resilienza inarrestabile e di una resistenza incrollabile, di una speranza che, nonostante tutto, persiste nel cuore, alimentando il desiderio di sopravvivere per conquistare la giustizia e, alla fine, la vittoria suprema: la libertà. È la storia di un cammino tortuoso piena di sangue verso l’Europa, la destinazione tanto agognata.
Il 4 settembre, dopo un lungo viaggio in treno, carico di rifugiati ucraini, donne e bambini, un gruppo di analisti e giornalisti italiani è giunto a Kyiv su invito del PEN Ukraine e dell’Ukrainian Institute, due organizzazioni non governative a carattere culturale e per i diritti umani. Appena arrivati, siamo stati accolti dal suono delle sirene che richiamavano tutti a dirigersi verso il rifugio antiaereo. Ma gli ucraini, con un sorriso, ci hanno rassicurato dicendo che il caccia russo Mig-29 era decollato dalla Bielorussia, ma di solito Kyiv è oggetto di attacchi con missili navali o droni, quindi in teoria potevamo stare tranquilli. E in effetti, dopo circa mezz’ora, l’allarme è cessato.
Durante i cinque giorni del nostro soggiorno in Ucraina, abbiamo vissuto l’esperienza di rifugiarci per ben tre volte. Una di queste situazioni si è verificata alle 4,45 del mattino, con un allarme che è durato quasi due ore. La privazione del sonno rappresenta una delle forme più crudeli di tortura, una sofferenza che la Russia sta infliggendo ai civili ucraini. Molti di loro sono ormai esausti dal trascorrere le notti in questo stato d’allerta costante. Rimangono nelle loro case, sperando che i sistemi antiaerei possano difendere il loro riposo, permettendo loro di affrontare un altro giorno di resistenza. Ma il sonno è anche affidato ai soldati ucraini, come recita una nuova ninna nanna: «Dormi, piccolo mio, le nostre forze armate ti proteggeranno».
Il giorno successivo al nostro arrivo, ci dirigiamo verso luoghi intrisi di torture e crimini contro l’umanità perpetrati dalle forze armate russe. Attraversiamo le strade di Bucha, Irpin, Hostomel e Borodyanka. Emergono davanti a noi case carbonizzate, ma anche edifici già ricostruiti. Scorgiamo ponti devastati, ma già in fase di riparazione. Alcuni, tuttavia, rimarranno per sempre segnati dalla distruzione, come quel ponte di Romanivsky che attraversa il fiume Irpin. Durante l’invasione russa nella regione di Kyiv, fermò l’avanzata delle truppe verso la capitale, diventando la sola via di fuga per gli abitanti delle città occupate dalla Russia. Il progetto del complesso commemorativo, noto come La Frattura Aperta, prevede la costruzione di un nuovo ponte (già in corso) accanto a quello demolito. Quest’ultimo verrà mantenuto affinché le generazioni future possano testimoniare il massacro e il dolore vissuto durante la fuga.
Proseguiamo verso Borodyanka, ora famosa anche per un murale di Banksy, un’immagine che ritrae un bambino che getta a terra un uomo vestito da judoka. Si tratta di un piccolo villaggio con edifici brutalmente colpiti dalle bombe, sotto le cui macerie hanno perso la vita ottanta civili. Tuttavia, il nostro sguardo è attirato anche dal monumento al poeta e fondatore della moderna lingua ucraina, Taras Shevchenko, che è stato “ferito” dai proiettili. Per oltre un secolo, molti ucraini hanno conservato il suo ritratto accanto alle icone nelle proprie case. L’importanza di Shevchenko come poeta nazionale era così immensa che persino il regime sovietico non osò metterla in discussione. Tuttavia, ci ha provato la Russia di Putin.
Nel programma non manca l’incontro con i rappresentanti del mondo culturale. E cosi i incontriamo collaboratori e dirigenti del Museo di Arte Moderna – Mystetskyi Arsenal, Museo Nazionale dell’Arte e dell’Archivio Nazionale del Cinema. Ciascuno di loro condivide la sua storia di resistenza all’aggressione e di come abbiano salvato le preziose collezioni museali. Le loro narrazioni hanno inizio con un breve excursus sulla storia del colonialismo russo, sottolineando come l’impero zarista abbia sottoposto l’intero quartiere di Pechersk al proprio controllo. Quest’area ospita oggi alcuni dei musei, ed è stata da sempre un fulcro culturale di Kyiv. Attraverso queste storie, vengono tracciati paralleli con la guerra odierna e con il tentativo del Cremlino di cancellare nuovamente la cultura ucraina. Infine, uno dei curatori del museo, mi dice: «Questa è una guerra coloniale, e credo che sia la nostra ultima battaglia per l’indipendenza e la libertà. Dopo la vittoria, costruiremo un muro lungo il confine, sigillando per sempre le porte alla Russia». Sento che la determinazione delle sue parole riflette l’urgente necessità di proteggere la cultura e l’identità ucraine contro minacce esistenziali.
Proseguiamo il nostro cammino verso Chernihiv, e anche qui, come in molti altri luoghi, le immagini di distruzione e ricostruzione si susseguono in un ciclo di caduta e rinascita, di dolore e speranza. Scorgiamo piccole biblioteche colpite dai bombardamenti, ma già in fase di ricostruzione. Una bibliotecaria, con le lacrime negli occhi, si dispera per i libri andati in fumo e per il catalogo andato perduto, ma nonostante tutto mantiene la fiducia che il centro di lettura possa essere ricostruito grazie alle donazioni e alla solidarietà.
L’incontro con Ivan, un uomo di 63 anni, rimarrà per sempre impresso nella mia memoria, assieme alla sua toccante testimonianza sulla prigionia nell’"Auschwitz russo”. Ci ha accolto con un abbraccio, i suoi occhi erano lucidi, ma le lacrime non scendevano più, forse si erano esaurite. Ci ha guidati in un sotterraneo di una scuola nel villaggio di Yahidne, nella regione di Chernihiv. Là sotto, il freddo penetrava nelle ossa, l’oscurità avvolgeva tutto, l’umidità era pervasiva, lo sporco regnava sovrano, e non c’era né bagno né aria fresca. Con il passare del tempo, la respirazione diveniva sempre più difficile. Ed è lì che Ivan ha iniziato il racconto atroce e straziante della sua prigionia, delle crudeltà inumane e gratuite perpetrate dalle forze armate russe regolari contro gli ucraini. «Per loro non eravamo esseri umani, eravamo meno dei cani», dice Ivan con una voce carica di amarezza.
Il 3 marzo, i russi occuparono Yahidne e imprigionarono circa 370 abitanti del villaggio, tra cui 77 minori (il più piccolo, una bambina, aveva appena un mese e mezzo), nell’angusto sotterraneo della scuola, dove rimasero per 27 lunghi giorni. Lo spazio permetteva solo di sedersi, era impossibile sdraiarsi. Il cibo scarseggiava, veniva concesso solo qualche cucchiaio di cavolo bollito. La madre della bambina più piccola non poteva allattare e implorava aiuto. «Tua figlia può morire, non ci interessa», rispondevano gli occupanti.
Costringevano i prigionieri a leggere i giornali russi, raccontando loro come la Russia stesse vincendo la guerra e come l’Ucraina fosse ormai completamente occupata. Ma non si fermarono qui. Presero due bambini, diedero loro un wafer e li fotografarono, per poi utilizzare le immagini nelle trasmissioni di propaganda russa, affermando che i bambini ucraini venivano nutriti dai “liberatori” russi.
La pioggia penetrava dall’alto, e ancora oggi sono visibili i tubi avvolti in stracci per cercare di fermare l’acqua. Poi, i russi danneggiarono il sistema di canalizzazione della scuola, causando il flusso di liquidi dall’alto sulla testa dei prigionieri. Dopo alcuni giorni (evidentemente stanchi di svuotare i secchi), permisero ai prigionieri di usare il bagno all’esterno, ma minarono le vicinanze per impedire fughe. Uno saltò su una mina. Undici persone morirono lì dentro, principalmente gli anziani. I russi rifiutarono per giorni di spostare i cadaveri in decomposizione altrove.
Sui muri del sotterraneo erano tracciati numeri, un calendario che segnava i giorni di marzo, i giorni rimanenti di vita, perché lì dentro, nessuno aveva più speranza di uscirne vivo da quell’inferno. Ma c’era una data speciale, il 30 marzo, con un cuoricino accanto e la scritta sotto: «Sono arrivati i nostri». Dopo 27 giorni di prigionia, le forze armate ucraine liberarono finalmente gli abitanti di Yahidne.
«Ogni volta che racconto la nostra storia, sento un nodo qui», dice Ivan, mettendo la mano accanto al cuore, «ma lo faccio perché sia testimoniato l’orrore che non dovrà mai ripetersi in futuro».