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 2023  settembre 13 Mercoledì calendario

Dietro al boom indiano

Nel 1961, quando visitò l’India per la prima volta, Pier Paolo Pasolini vide un Paese «intellettualmente facile da possedere». L’indipendenza, nel 1947, dal dominio britannico aveva accelerato il processo di industrializzazione, ma la borghesia indiana era ancora piccola, attorniata da un «enorme sottoproletariato agricolo, bloccato da secoli nelle sue istituzioni dalla dominazione straniera». Pasolini, che visitò il Paese per la prima volta in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, vide una maggioranza di indiani che esisteva al di fuori della storia dell’uomo. Quando vi tornò per realizzare il suo documentario Appunti per un film sull’India (1968), Pasolini si accorse che il Paese era già cambiato. Nel film chiede a un ragazzino appartenente alla casta dalit (quelli che un tempo erano considerati intoccabili) se pensa di poter essere un giorno il presidente dell’India indipendente. Il ragazzo risponde di sì con entusiasmo. È un momento importante. Uno stato-nazione sulla via della modernizzazione offre ai suoi cittadini tradizionalmente più poveri e sfruttati la promessa della mobilità sociale. Le gerarchie consolidatesi nel corso dei millenni scricchiolano. In meno di sette anni, il semplice ritratto fatto da Pasolini di un Paese a lungo stagnante ed esotico, agli occhi di un occidentale, per l’estremità della sua povertà materiale e della sua ricchezza spirituale, si è incrinato.
Oggi l’India si trova nella fase finale e più insidiosa della sua straordinaria rivoluzione sociale, politica e culturale. Moltissimi cittadini a lungo repressi, galvanizzati da idee di libertà e dignità, si stanno ribellando alla propria miserabile condizione. L’India è il Paese, come lo ha descritto in maniera indelebile V.S. Naipaul nel 1990, di «un milione di rivolte», in cui «ovunque le persone sanno chi sono e che cosa devono a sé stesse».
Questa radicale consapevolezza di sé è naturalmente desiderabile e benvenuta in un Paese in cui, per moltissimo tempo, nascere in una classe e in una casta ha rappresentato un limite per le speranze degli individui. Lo straordinario risultato dell’atterraggio di una sonda robotica in prossimità del polo sud della Luna non sarebbe stato raggiunto senza questo allargamento del senso della possibilità. Tuttavia, non dobbiamo illuderci che questo risveglio alle idee di storia, egualitarismo e azione individuale e collettiva sia fondamentalmente positivo e porti automaticamente a una società benevola e stabile.
Tanto per cominciare, le condizioni economiche dell’India non sono tali da consentire l’emergere di una vasta e democratica classe media. La globalizzazione economica ha portato benefici a una piccola minoranza ma ha innestato sulle vecchie gerarchie nuove diseguaglianze di reddito e di opportunità. La crescita economica degli ultimi anni si è basata soprattutto sull’estrazione di risorse naturali, sulla manodopera a basso costo e sull’afflusso di capitali stranieri, non sull’aumento della produttività e dell’innovazione, e men che meno su imprese edilizie come quelle che hanno sostenuto l’ascesa della Cina come potenza manifatturiera.
L’incapacità di generare posti di lavoro stabili – ogni mese ne serve un milione in più – per una popolazione sempre più urbana e atomizzata continua ad alimentare un già grande bacino che ribolle di rabbia e frustrazione. Le conseguenze politiche – persone che scoprono la propria miserevole condizione, non sono in grado di migliorarla e vogliono dare la colpa a qualcuno – sono evidenti. Oggi in India sono i musulmani a portare il peso della frustrazione e della rabbia che in buona parte dell’Europa, durante la sua modernizzazione, fu sostenuto dagli ebrei. Nel 1992, due anni dopo la pubblicazione del libro di Naipaul India: un milione di rivolte, il partito nazionalista indù BJP ha demolito una moschea medievale nel nord del Paese, dando il via alle violenze contro i musulmani. Le aggressioni contro le minoranze, soprattutto nella regione del Kashmir, si sono intensificate fino a culminare, nel 2002, nel massacro, favorito dal governo locale, di più di mille musulmani nel Gujarat. Narendra Modi, che allora era ministro capo del Gujarat ed è stato accusato, assieme ai suoi più stretti collaboratori, di complicità nel pogrom anti-musulmano e bandito da Stati Uniti e Regno Unito, oggi occupa il principale ruolo politico del Paese. Modi è membro della Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), un’organizzazione paramilitare nazionalista indù che si ispira ai movimenti fascisti europei e vuole realizzare le tesi del suo fondatore, secondo il quale la Germania nazista, con lo sterminio degli ebrei, ha manifestato «al meglio l’orgoglio razziale».
Oggi la vita politica indiana è caratterizzata dal consolidamento, da parte di Modi, della solidarietà indù di fronte a diversi nemici del popolo: i terroristi musulmani, la leader di origini italiane dell’Indian National Congress, Sonia Gandhi, o coloro che mangiano carne di manzo. Come hanno sottolineato, in un comunicato congiunto pubblicato lo scorso anno da PEN America, Salman Rushdie, Jhumpa Lahiri e altri scrittori indiani e della diaspora indiana – l’elezione di Modi nel 2014: «ha trasformato l’India in un Paese in cui i discorsi d’odio sono espressi e diffusi ad alta voce, in cui i musulmani vengono discriminati e linciati, case e moschee abbattute, i mezzi di sussistenza distrutti; in cui i cristiani vengono picchiati e le chiese assaltate; in cui i prigionieri politici sono detenuti senza un processo».
I risultati economici di Modi sono scarsi e caratterizzati soprattutto dal trasferimento – mediante privatizzazioni o veri e propri regali – delle risorse nazionali ai più grandi uomini d’affari del Paese. Ciononostante, Modi resta popolare perché è riuscito a convincere buona parte della giovane popolazione indiana – più di due terzi degli abitanti dell’India hanno meno di 35 anni – del fatto che lui, figlio di un umile venditore di tè, sta guidando una rivoluzione che sbaraglierà il vecchio ordine politico corrotto e costruirà un’India nuova e gloriosa. Nel suo discorso per l’anniversario dell’indipendenza, il mese scorso, ha prefigurato un’India che, sotto la sua guida, gradualmente abbandona la mentalità da schiava per arrivare a dominare il mondo e a creare un’età dell’oro che durerà per i prossimi mille anni. Ci sono buone ragioni per diffidare di questa retorica. La somiglianza con il linguaggio («Terza Roma», «Reich millenario») usato un tempo dai demagoghi fascisti europei per insinuare nella gente sentimenti di umiliazione e fantasie di dominazione del mondo, non è casuale. Oggi l’India sta vivendo un enorme sconvolgimento, che è il risultato paradossale del suo esperimento con la democrazia di massa, l’industrializzazione e il capitalismo di stampo occidentale. Nel mezzo secolo trascorso dalla visita di Pasolini, centinaia di milioni di indiani hanno fatto il loro ingresso nella storia con menti e cuori ribelli, ma la loro vulnerabilità a ideologie di odio e risentimento fa temere che una grossa parte dell’Asia possa ripetere il trauma storico dell’Europa.