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 2023  settembre 13 Mercoledì calendario

Cose non dette

Ci sono tante cose che, da mesi, non ci diciamo nel nostro discorso pubblico. Come nelle famiglie che arrivano fino a un punto di verità e poi per timore o pudore si fermano sulla soglia dei segreti.
Il nostro segreto più grande è la guerra, che viviamo – ma è un atteggiamento dell’intera Europa – come una tremenda tempesta in un altro Paese, una cosa che ci riguarda sì in generale, ma senza sentircene colpiti. Il nostro segreto è il nostro rifiuto di fare i conti con l’impatto di un conflitto di cui non si vede la fine. Il rifiuto a sua volta, come scatole cinesi, copre una serie processi che stanno trasformando il nostro orizzonte politico: il principale è una rapida e forte inclinazione del sistema a favore dei partiti leaderistici. Nei fatti una tendenza che favorisce l’affermarsi di un nuovo assetto, il tanto amato dal governo (e non solo) premierato. Sembrano due discorsi così lontani, ma è possibile senza eccessivo sforzo, dimostrare il legame fra guerra e trasformazione del nostro sistema.
Un effetto che d’altra parte si sta riproducendo nell’intera Europa.
Il conflitto in Ucraina ha avuto molte fasi, ma ha cominciato a pesare di più sui destini dell’Europa quando esce dalla portata di una azione a potenziale soluzione diplomatica e diventa endemico. Quello che si combatte su suolo Ucraino è oggi una paralisi armata – densa di finzioni e disperazioni. La controffensiva di Kiev, mai davvero esistita (parola degli stessi americani) è ogni tanto rispolverata in questi giorni, con piccoli trucchi contabili – un successo «perché avanza di dieci metri al giorno». Povera copertura ideale per mezzo milione quasi di vittime in Ucraina – anche questa è parola di americani – e forse altrettante sul fronte dell’esercito russo.
Il momento in cui il meccano si è rotto, lo troviamo in Russia. Il cambio di passo del conflitto è la rivolta di Prigozhin, quando un Putin a occhi sbarrati si presentò in Tv, incapace per la prima volta di evitare lo spettacolo della sua debolezza. Fu quello il passaggio in cui le analisi dell’intelligence Nato videro subito il futuro: «la sorte di Prigozhin è segnata, ma il difficile è quello che arriverà dopo». Abbiamo dato conto di queste analisi su La Stampa, il 24 giugno, il giorno dell’assalto a Mosca da parte del mercenario. Il «dopo» che la Nato temeva era quella debolezza vista in Putin,«il rischio è che inizi una fase di destabilizzazione del sistema che sia più pericolosa, per opacità e lunghezza, di uno schianto». Per dirla con parole del prestigioso Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), «Putin accusa il tradimento ma ormai il leader del Cremlino è nudo».
Venne allora a galla tutta la incontrollabilità del sistema di Mosca: chi verrà dopo Putin, è un altro mistero che la politica estera occidentale, pur con i suoi enormi apparati, non ha mai davvero penetrato. Quella rivolta da operetta è stata così un indicatore malgrado se stessa: l’eco di un danno a venire, di una possibilità non prevista. Il sistema in quelle settimane passò dal tran-tran di una guerra delle parti, all’allarme rosso generalizzato. Cui si rispose in Occidente «serrando le fila», come si fa in guerra. Il segnale più chiaro dello step up della percezione del pericolo fu la frettolosa conferma del prolungamento dell’incarico a Jens Stoltenberg, fino al 1° ottobre 2024. Il norvegese, 64 anni, è alla testa della Nato dal 2014 (anno della invasione della Crimea), il rinnovo diventa il suo quarto. Decisione che viene presa in Europa con sollievo. Stoltenberg, è nominato poco prima del Summit di Vilnius l’11 e il 12 luglio che si rivelerà particolarmente importante per l’Alleanza atlantica. Il discorso iniziale del norvegese, che, stampato e pubblicato, farà il giro dell’Europa, delinea un nuovo ruolo della Nato in tutto il mondo, come difensore della democrazia contro le dittature.
È una espansione della missione e degli spazi fisici della Organizzazione che è stata fin qui una alleanza regionale Occidentale, con scopo difensivo, che invece ora si candida ad essere una alleanza globale con forte caratura ideologica (democrazie contro dittature) con proiezioni sull’estremo Oriente (per altro già in costruzione) con chiari significati di contenimento della Cina La rinomina di Stoltenberg invia un messaggio forte e chiaro, all’Europa: stringere le fila, cioè «nessun dissenso con gli obiettivi della guerra, in particolare nessun disallineamento». In sintesi, nessuna crisi di singoli Paesi deve disturbare gli equilibri geopolitici. Le necessità della guerra viene prima di ogni altra dinamica. Una fortuna per tutti i governi indecisi, indebitati, e indeboliti d’Europa. Che poi sono quasi tutti. Bruxelles modera i toni, e chiude gli occhi sulle crisi interne – basta che ci si comporti bene in Europa, dove guida l’unico governo con accordi e influenza internazionale. Finisce così con il sovrapporsi a ogni processo politico interno dei vari paesi.
Per il governo Meloni il nuovo atteggiamento di Bruxelles è un bonus incredibile, una assicurazione di sopravvivenza. Se nei primi mesi del suo mandato le è bastato elaborare la sua politica da Giano bifronte per essere accettata dal governo europeo a dispetto delle molte assurdità fatte in patria, nel secondo trimestre, dopo l’estate, è diventato chiaro che il suo governo annaspa sulla questione dei fondi per la finanziaria, ma che la sua lealtà europea tiene. E diventa anzi l’unica carta che la tiene in piedi. In condizioni di normalità di fronte alla incapacità di preparare una finanziaria si sarebbe aperta una crisi di fatto con l’Europa. Oggi, con la guerra in una fase così disperata, anche l’Italia può sperimentare quel che vuole, perché nessun governo può entrare in crisi. Una forma di irresponsabilità protetta che si sviluppa sotto la gabbia della guerra.
E infatti, questo è quello che sta succedendo anche in Italia. Giorgia, la premier, può permettersi di tornare dalle vacanze cambiando l’agenda e mettendo al primo posto dell’azione di governo le riforme Costituzionali. Il premierato. E può aprire la porte alle operazioni più oltraggiose: negare ogni crisi, nominare famigli e dire quel che le pare su se stessa e il mondo. Finanche attaccare il Commissario Europeo. Ma fino a un certo punto.
Nelle scorse settimane una serie di interventi sembrano aver segnalato lo scontento di un pezzo di classe dirigente italiana che scuote il capo davanti a tanta mancanza di «accortezza» – e ne parleremo in dettaglio nella seconda parte di questo articolo.
Un’«accortezza» non esercitata anche nei confronti del Commissario Gentiloni, come si diceva, criticato con l’arroganza che si sfoggia in un serata di sbronze. Un attacco che proprio in queste ore sembra aver motivato l’Europa a inviare all’Italia un «alt», l’indicazione di non procedere su questa strada della sfida.
Un segnale che si può leggere in questo modo: lo spazio politico nazionale diventa, in un momento di guerra, uno spazio terzo in cui la politica può fare quello che vuole. Ma fino a un certo punto. Siamo entrati ora così in un luogo senza mappe.
Quel che è interessante, è che questo spazio di relativa «libertà» l’hanno afferrato a destra come a sinistra. E la irresponsabilità politica che la guerra ci regala la battaglia delle Europee è diventata l’occasione per aggiustare e ridefinire gli equilibri interni di ogni partito.
Di questo parleremo nella prossima puntata. —