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 2023  settembre 13 Mercoledì calendario

Intervista a Bruno Gambarotta

La sua biografia dice «nato ad Asti nel 1937». Come Paolo Conte.
«Lui sostiene che eravamo compagni di classe. A me, onestamente, pare che lui fosse un anno avanti. Ma ricordo che era un organizzatore pazzesco di tornei di pallone. Faceva tutto, disegnava persino le divise».
Al bar con Bruno Gambarotta, sotto casa sua a Torino, dove vive da quasi settant’anni. Quartiere della Crocetta.
«Primo Levi abitava proprio qui di fronte. Era così gentile, diceva sempre sì. Quando lavoravo alla sede Rai di Torino lo invitavamo per un’opinione su tutto: la Torino magica, la Torino delle sartine... Poi ci telefonò: “Abbiate pietà, non chiamatemi più”. Qui vicino stavano Einaudi, Ginzburg, Bobbio, Arpino, Pitigrilli... Torino era la città della cultura».
Quest’estate invece è diventata la città dell’affaire Segre-Seymandi, il banchiere che ha pubblicamente lasciato la compagna durante la festa di fidanzamento.
«Siamo rimasti sgomenti. È stato un momento tragico per noi cultori della torinesità: in un istante è stata sepolta una tradizione secolare di riservatezza sabauda. Ci vorrebbe un conclave per ricostruire la reputazione della città».
Il destino l’avrebbe voluta tipografo.
«Come mio padre. Mia madre invece faceva la pettinatrice: sono cresciuto nel suo negozio leggendo i femminili, “Novella”, “Confidenze”, “Grand Hotel”. Poi ho rischiato di fare il fotografo, ma non avevo i riflessi pronti. Mi mandarono in un tabarin a ritrarre Maria Luisa Garoppo, la super vincitrice di “Lascia o raddoppia?”, mi allontanò infastidita. Lasciai stare servizio e professione».
Tanti anni dopo «Lascia o raddoppia?» l’avrebbe condotto lei.
«A fine Ottanta mi chiamarono per presentare la trasmissione. Io chiesi perché avessero pensato a me. Risposero: “Perché sei l’esatto opposto di Mike Bongiorno. Devi solo perdere l’accento piemontese”. Così mi iscrissi a un corso di dizione. A metà percorso il docente mi disse che avevamo finito. “Mi è passato l’accento?” domandai, “No, ma sta venendo a me.” Ciononostante nel 1990 feci “Lascia o raddoppia?” con Giancarlo Magalli. Fu un insuccesso clamoroso».
A quei tempi viveva della fama improvvisa arrivata con «Fantastico 87».
«Nell’87 affidarono “Fantastico” a Celentano che sapeva niente di tv. Così mi misero accanto a lui per spiegargli i meccanismi. Impossibile: Adriano era totalmente refrattario a tutto, improvvisava e basta. I suoi proverbiali silenzi? Semplicemente non si ricordava cosa dire. Poi fece una gaffe clamorosa: spiegando un concorso disse il nome di uno sponsor al posto di un altro. La settimana successiva per non impappinarsi Adriano chiamò me sul palco per illustrare il funzionamento del premio, e d’un tratto divenni famoso».
Dopo venticinque anni dietro le quinte.
«Ero entrato in Rai nel 1962, a Torino. Poi ero finito a Roma a scrivere. Nella stanza accanto stava l’adorabile Raffaele La Capria, nella mia l’autore triestino Renzo Rosso e Andrea Camilleri. Ma non c’erano mai: a Roma, scoprii, le riunioni si facevano a casa. Grazie a La Capria finii in serate indimenticabili».
Com’era Camilleri?
«Aveva un vero talento per il racconto orale. L’ho poi incontrato tanti anni dopo a Torino. Lo andai a prendere all’Albergo Roma. Era turbato. Pensando di fargli un piacere, il proprietario dell’hotel gli aveva proposto di dormire nella stanza in cui si era suicidato Pavese».
Preferiva la Rai di quegli anni?
«Io ho amato la Rai 3 di Angelo Guglielmi, lui era un vero eversore. Per me il Gruppo ’63 era un mito, Umberto Eco e Edoardo Sanguineti erano grandi, ma era Guglielmi il vero bombarolo della cultura».
Poi arrivò Berlusconi.
«Come si faceva a dire di no a uno così? A Raffaella Carrà mandava duecento rose rosse al giorno, Pippo Baudo lo faceva venire a prendere con l’aereo privato. A me la Rai non rimborsava nemmeno la bicicletta. I più grandi lasciarono la tv di Stato».
Un po’ come è successo ora con Fazio e Littizzetto.
«Hanno fatto bene, piuttosto che sentirsi sorvegliati speciali... Fazio è un vero innovatore della tv, penserà qualcosa di efficace. Quando inventò “Quelli che il calcio” fu una rivoluzione: prima di allora la tv era una liturgia. Lui capì che poteva essere un sottofondo mentre si fa altro. Un totale cambio di paradigma, come se la gente si facesse i fatti propri durante la messa».
Avete lavorato assieme.
«Lo conosco da quando faceva le imitazioni nei licei, lo scoprì Bruno Voglino, Guglielmi poi capì il suo potenziale. Nel 1992 abbiamo condotto “Porca Miseria” con Patrizio Roversi. Pura innovazione. Un fiasco completo».
Gli ascolti sono tutto?
«I numeri sono una condanna. Ricordo che dietro il palco di Costanzo c’era il suo autore Alberto Silvestri – il padre del musicista Daniele – che controllava i dati in tempo reale: se un ospite non funzionava, faceva un cenno a Maurizio e il malcapitato finiva nel dimenticatoio tutta la puntata».
Luciana Littizzetto?
«La vidi a un saggio di fine anno delle compagnie teatrali torinesi. Tutti lì a declamare Pirandello, lei – che era un’insegnante di Lettere in una scuola di periferia – si mise a cavalcioni sulla sedia e fece “Minchia Sabri”. Venne giù il teatro».
Il più grande talento che abbia incontrato?
«Nanni Loy, puro genio. Facemmo “Specchio segreto”, la prima versione italiana della candid camera. Girammo una puntata su un treno, io ero travestito da controllore. Ma per legge non si possono indossare divise identiche a quelle vere, quindi sul bavero sostituimmo la sigla “FS” con “FZ”. Chiesi a Nanni: “e se qualcuno se ne accorge?” Lui: “Rispondi che significa Ferrovie dello Zambia”».
Funzionò?
«Me lo domandarono in due, sembrarono soddisfatti dalla risposta».
Ha fatto anche l’attore.
«Cominciai con Comencini, ma sono sempre stato una “tinca”, il nome che si dà a quelle particine invisibili come i pesci di fondale: il primario, il notaio... Ma anche ventiquattro puntate del “Commissario Manara”, in cui interpretavo l’agente Quattroni. Una volta giravamo un episodio a Capalbio e m’imbattei in Alberto Asor Rosa: mi conosceva, vedendomi in divisa allibì».
E ha fatto lo scrittore, fino al suo ultimo «Fuori Programma – Le mie memorie dalla Rai» (Manni).
«Ho scritto tanto, anche “Torino, Lungodora Napoli” che è diventato il film “Libero Burro”, il primo da regista di Castellitto. Lo presentarono a Venezia e non mi invitarono. Io riuscii a intrufolarmi e scoprii che non c’entrava niente con il libro, era pieno di scene senza senso. Andai da Castellitto: “Ma guarda che non mi importa, fate come vi pare”. Mica sono Bassani che tolse la firma da “Il giardino dei Finzi-Contini”. Ed era di De Sica!».
Di cosa ha paura?
«Di scomparire, sto evaporando nella memoria di tanti. Ormai mi confondono con altri: chi mi chiama Gambacorta, chi Barbagallo. Ma chi fa televisione è eterno, no?».