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 2023  settembre 13 Mercoledì calendario

Al Piccolo, con Strelher, Grassi e Montale

Ci sono inediti letterari che poco o niente rivelano su quanto già si sapeva di un autore. Ma ce ne sono altri, invece, che aggiungono luce a uno scrittore famoso e alla sua opera. È il caso della traduzione del Giulio Cesare di William Shakespeare firmata da Eugenio Montale. Dopo settant’anni è riemersa dagli archivi del Piccolo Teatro di Milano. Pur essendo andato in scena con successo, il Giulio Cesare tradotto dal poeta ligure finora non era mai stato pubblicato. La casa editrice Interlinea lo licenzia ora, per la prima volta, nel volume Giulio Cesare nella traduzione di Eugenio Montale, curato da Luca Carlo Rossi per la collana “Biblioteca di Autografo” fondata da Maria Corti.
Tutto cominciò nel 1953, quando il futuro premio Nobel per la Letteratura ricevette la richiesta di tradurre quella tragedia da parte di Paolo Grassi e di Giorgio Strehler. “Da via Rovello, sede del Piccolo Teatro”, scrive Rossi, “assurto in pochi anni dalla fondazione (1947, ndr) a punto di riferimento nazionale, arriva al poeta la richiesta di preparare una nuova versione di Giulio Cesare da mettere in scena nell’imminente stagione 1953-1954, destinata quindi alla recitazione senza esiti editoriali. Grassi e Strehler, che già si erano avvalsi di quattro traduzioni shakespeariane di Salvatore Quasimodo, coinvolgono finalmente Montale dopo la sfumata possibilità di rappresentare all’aperto il Dottor Faustus di Marlowe da lui tradotto”.
Il poeta delle Occasioni accettò, si mise al lavoro, infondendo nell’opera scespiriana molto del suo lessico poetico e del suo stile, pur recitabilissimo, non troppo aulico e colto da non funzionare in bocca a un attore (e infatti l’inflessibile regista Strehler cambiò poco o nulla, ndr). Tuttavia, con l’avvio della versione, ebbe inizio una contesa sui tempi di consegna del testo, con Montale che da Venezia, il 2 di settembre, dall’hotel Excelsior scriveva a Grassi “per annunciare un settembre ‘travagliatissimo’ e tuttavia pensa di poter ‘offrire mezza traduzione per il 15 ottobre; e il resto scena per scena. È il massimo sforzo che posso fare’”. Alla fine arrivò l’accettazione di Montale, che, come gli scrisse Grassi l’8 settembre, “costituisce un altro titolo di merito per il nostro Teatro e… mi auguro costituisca una soddisfazione per te”.
La tragedia fu rappresentata il 20 novembre 1953 al Piccolo. Durante le prove il poeta non si era fatto vedere, però presenziò alla prima, “allontanandosi subito al termine della recita”. Lo spiegò in una lettera a Grassi, “dispiaciuto di non aver saputo nulla sullo spettacolo da parte sua… Io non mi feci vedere la sera della prima perché data la tarda ora ero stanco e affaticato. Sono molto lieto del successo di critica e di pubblico. Lo spettacolo è molto riuscito e la regia è degna di Strehler. Circa gli attori, ho avuto l’impressione che il Di Lullo (in realtà De Lullo, interprete di Antonio, ndr) esca dal quadro d’insieme creando un personaggio che non è quello del testo. Non ha nulla di furbo e di machiavellico; si presenta sin dall’inizio così fiero e aggressivo che non si comprende come mai i congiurati lo lascino in vita. E così dopo la sua sparata non prendono il giusto rilievo la baruffa tra Bruto e Cassio e il quartetto dei generali, all’ultimo atto. Un po’ scialbo il Carraro (Bruto), ottimi Ferrara (in realtà: Ferrari, interprete di Cesare) e Valli (Casca), a tratti efficace ma disuguale Foà (Cassio). Quel che poi non ha funzionato alla prima (la sola recita da me sentita) è l’acustica. Sotto il capannone almeno la metà delle parole sono andate perdute”.
Non andarono perduto le parole, e si comprese bene il senso della tragedia, nel corso della tournée sudamericana del Giulio Cesare, “realizzata fra il giugno e il luglio 1954, durante la quale alcune battute di Cassio sulla presunta superiorità e unicità di Cesare suggerirono un accostamento col vigente dittatore Perón, provocando il rischio della sospensione delle recite”.
Il rapporto con il Piccolo Teatro di Grassi e Strehler sigillò la “milanesità” di Montale, anche se il poeta affermò nel 1965 di considerarla solo un “nascondiglio”: “Qui l’unica cosa bella è che si può non uscire mai di casa, perché fuori non c’è niente sulla bilancia che pesi più dello starsene a casa… Del resto io conosco poco Milano, perché ci abito appena da 19 anni e forse non finirò la mia vita qui”. Eppure a Milano avrebbe vissuto fino agli ultimi giorni, morendovi il 12 settembre 1981.