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 2023  settembre 12 Martedì calendario

Intervista a Francesca Rigotti. Parla delle metafore

Nel labirinto di relazioni in cui ci muoviamo ogni giorno, le parole aiutano a orientarsi. Ben lontane dall’essere solo una bussola, un medium tra noi e gli altri, arrivano nella comunicazione pubblica e privata, come maschere infedeli che, mentre promettono di veicolare determinate immagini, tradiscono identità, intenti e contesto culturale di chi le adotta. Quando parliamo di qualcosa, parliamo sempre e anche di altro, mettiamo in atto un «trasporto» ovvero una «metafora».
Sulla sua funzione riflette Francesca Rigotti al Festivalfilosofia. Filosofa, saggista, ha insegnato all’Università della Svizzera italiana di Lugano. Per decenni ha misurato il raggio d’azione delle parole nel linguaggio filosofico.
Lei sostiene che è impossibile parlare senza metafore. Perché?
«Le parole contengono un’etimologia che rimanda ad altro. Con le parole facciamo riferimento a tanti significati, “trasportiamo” l’interlocutore in altri mondi o racconti».
Come nasce una metafora?
«Spontaneamente, parlando o scrivendo. E ci sono quelle costruite di proposito: come fanno i ghostwriters che associano immagini per un obiettivo preciso. E a queste bisogna stare attenti perché possono avere un intento manipolatorio».
È ancora possibile esercitare una forma di resistenza alle seconde?
«Ai miei studenti dicevo sempre che non è una questione di lotta, ma di consapevolezza. Bisogna esercitare la facoltà di cui parla Simone Weil, l’attenzione, fino a farla diventare un organo. Se parliamo e ascoltiamo con attenzione, le parole che cadono nei discorsi difficilmente saranno trappole».
Un esempio?
«Ne faccio uno che mi fa molto arrabbiare. Quando si parla dei naufragi dei migranti, ricorre l’espressione “recuperare dei corpi in mare”. In italiano, per definizione, il corpo è vivo. Ecco perché Dante scrive: “E caddi a terra come corpo morto cade”. Deve specificare con un attributo che è morto. Per i naufragi, invece, si usa il termine “corpo” come traduzione dall’inglese corpse, che vuol dire “cadavere”, perché in italiano quest’ultima parola suona male. È un modo del linguaggio politico per mitigare l’impatto della tragedia sull’opinione pubblica».
Quindi, è nella politica che le metafore trovano l’uso più controverso.
«Sì, anche se il linguaggio politico tende a essere sempre meno figurato. Nel celebre I have a dream di Martin Luther King troviamo espressioni come “la gelida mano dell’oppressione” o “risonante libertà”. Fa precedere sempre il sostantivo da un aggettivo che lo metaforizza. Questo tipo di discorso figurale, carico di simboli, sta svanendo».
A cosa è dovuto questo inaridimento del linguaggio?
«Al tentativo di renderlo a tutti i costi più scientifico. Si insegue un rigore comunicativo ideale e impossibile. La metafora mente, dice cose che non esistono. Ma è il modo per accedere alla verità: mediante la non verità. E poi, cacciando le metafore dalla casa della lingua, ne faremo un luogo inospitale».
C’è un modo per frenare questo processo?
«A scuola. Oggi i ragazzi sono sommersi dal valore assoluto del linguaggio scientifico. L’unica cosa che conta è la matematica, lo studio delle discipline STEM. Facciamogli riscoprire il dialogare, il nobile esercizio del passarsi il filo del discorso. Educhiamoli a parlare utilizzando argomenti a favore o contro, e non dicendo la prima cosa che viene in mente».