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 2023  settembre 12 Martedì calendario

L’archivio di Lorenzo Mondo, dalle lettere di Levi alle dediche di Calvino

Eugenio Montale, ancora fresco di Nobel, gli manda una cartolina nel ’77 per chiedergli un ritaglio di una recensione, e a stretto giro di posta lo ringrazia «per la sua bontà a mio riguardo» e per il piacere di «vedermi ricordato sulla Stampa». Pietro Citati gli scrive che «è bello – capita ancora – sentirsi protetti da Lei». Ennio Flaiano nel ’72, commenta la recensione di Le ombre bianche, uno dei suoi libri più tormentati, che «Lei non poteva “spiegarmi” meglio a me stesso, e di questo le sono grato». Maria Corti ricordava, ringraziandolo, quanto sia importante «incontrare un lettore che penetra tra le pieghe del discorso», e così la gran parte dei protagonisti della letteratura novecentesca fino e oltre il crinale del millennio.
Lorenzo Mondo (scomparso l’anno scorso) era sostanzialmente questo – un lettore, il lettore ideale – e anche altro: uno studioso, un giornalista culturale e un organizzatore di cultura. Erano tempi, soprattutto gli ultimi decenni del secolo scorso, in cui certi critici, con una recensione, potevano determinare il destino di un autore. Faceva parte di questa ristrettissima cerchia. Con gli scrittori – scrittore anche lui – ha intrattenuto un lungo dialogo non solo dal terminale di Tuttolibri e della Stampa, di cui fu a lungo vicedirettore dopo aver portato il supplemento letterario al successo.
Ora le tracce materiali di questo lavoro di connessione, discussione, influenza sono alla Fondazione Pavese di Santo Stefano Belbo (Cuneo). La famiglia ha voluto cedere ad essa – il cui comitato scientifico è presieduto da Alberto Sinigaglia, che con Mondo ha condiviso anni giornalismo culturale – l’intero archivio, e cioè i libri (circa seimila volumi specificatamente di letteratura e critica, moltissimi dedicati come Il castello dei destini incrociati, dove Italo Calvino scrive «a Mondo, che questo libro tenne già a battesimo») e le lettere (sono centinaia), a disposizione degli studiosi. Tra i mittenti ci sono Andrea Zanzotto, Anna Maria Ortese, Eugenio Montale, l’amico Giovanni Arpino, e poi Sciascia, Ceronetti, Calvino, Primo Levi, Arbasino, Tabucchi, un altro grande amico come Rigoni Stern, Meneghello, Luzi, Bufalino. Non sono lettere d’occasione. Leonardo Sciascia nel ’84, si confida con lui, dicendogli che «ho scritto sempre per rabbia o per divertimento, con divertita rabbia o con rabbioso divertimento» ma diffida ormai dei giornali, cui non si vuol legare e ai quali diventa «sempre più allergico, soprattutto come lettore». Ormai, aggiunge «parlo più coi morti che coi vivi». E in post sciptum gli chiede l’indirizzo di Gianni Vattimo. Mario Rigoni Stern gli dice semplicemente di essere contento per avergli fatto «un po’ di compagnia col mio raccontare». Il fondo a lui intitolato (censito da Daniela Bussi e Silvia Boggian) verrà presentato sabato a Santo Stefano Belbo, nel quadro del Pavese Festival e del premio Pavese. Ed è un esito naturale, come sottolinea il direttore della Fondazione, Pier Luigi Vaccaneo: «Per noi – dice – è come se si chiudesse un cerchio. Lorenzo Mondo rappresenta moltissimo per Pavese. In altre parole, questa è casa sua»: la casa ideale di Quell’antico ragazzo, com’è il titolo della biografia che gli ha dedicato nel 2006 per Rizzoli e in una versione accresciuta nel 2021 per Guanda. A tutti gli effetti la sua ultima opera.
Il Pavese di Mondo, già dal tempo della sua tesi di laurea poi pubblicata per Mursia, era molto più vero di quanto allora venisse descritto e interpretato sulla base della sua adesione al Pci. Il taccuino segreto, diario «scandaloso» tenuto negli anni della guerra partigiana, dove l’antifascismo veniva contraddetto da fascinazioni irrazionalistiche, era il tassello ancora mancante, benché il critico lo abbia avuto molto presto, mentre lavorava alle lettere, dalla sorella dello scrittore. Lo mostrò a Italo Calvino, la decisione fu di aspettare. Calvino trattenne il manoscritto, che è poi scomparso: ma il giovane ricercatore ne aveva una fotocopia, che tenne trent’anni per sé (all’inizio, nascosta sotto la culla della figlia Monica) fino a quando nell’agosto del ’90, lo pubblicò sulla Stampa, ovviamente con l’assenso dei famigliari.
Sono poche pagine, l’equivalente di un lungo articolo: ma ulceranti, perché in quegli appunti Pavese, nel pieno della Resistenza, sembrava essere sedotto dalle sirene del fascismo. Va detto subito che questi appunti erano «segreti», il segno di una crisi, la parte buia e privatissima di un uomo. Ma renderli pubblici fu un atto di coraggio, che non tutti almeno sulle prime compresero. Natalia Ginzburg, per esempio, reagì sulle prime con indignazione (e le tracce sono nel carteggio) per prendere poi una posizione diversa, di comprensione: forse un amico non avrebbe dovuto pubblicarle, scrisse, ma uno studioso sì. L’amicizia era però fuori discussione, proprio nello sforzo di comprensione. Il critico ci ha restituito così l’immagine più vera di un Pavese «che si lascia solo incidentalmente catturare dalla politica».
Ora anche quell’antica fotocopia è a Santo Stefano Belbo, arrossata e annerita dal degrado della carta termica che si usava negli Anni 60. Insieme ad essa, gli ultimi appunti di lavoro, dedicati a Beppe Fenoglio, l’altro polo della ricerca di Lorenzo, che ne è stato non solo uno dei primissimi studiosi, ma anche colui che ci ha permesso di leggerlo per davvero. Se in vita aveva pubblicato molto poco, l’autore albese aveva lasciato, morendo, manoscritte in varie versioni le sue opere più importanti. Fu Mondo a «ricostruire» e curare per Einaudi (uscì nel ’68) la prima edizione di Il partigiano Johnny: suscitò discussioni e contrasti filologici, ma è un fatto che è quella venduta, letta e studiata da tutti, è il Fenoglio che conosciamo e amiamo. E non fu la sola scoperta fortunata: nel ’94 gli arrivarono gli Appunti partigiani (che pubblicò per Einaudi) salvati da un signore che anni prima, a pesca sul Tanaro, aveva rovistato tra un mucchio di cartacce abbandonate. D’ora in poi, a disposizione degli studiosi.