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 2023  settembre 12 Martedì calendario

Gioventù bruciata dell’Est

Tratto dal libro Disastri esistenziali e spese folli di Robert Perišić
Eravamo circa un migliaio in città. Solo noi. A volte si sentivano delle grida, come se avessero trovato qualcuno. Quando è tornato, Mladen era emozionato. “Pensa” ha detto “un tipo ha scovato una Ferrari in un garage. Come fanno ad avere la Ferrari, amico?”. Ha alzato gli occhi verso il cielo scuro. “Cristo, come fanno ad avere la Ferrari?” ha rivolto lo sguardo su di me. Era scioccato, rideva e scuoteva la testa. “Là, in centro, si stanno inculando la Ferrari” ha detto.
“E dov’è questo centro?” ho chiesto. Fino a quel momento pensavo che fossimo in centro.
“Ehi, amico!” ha detto e mi si è appeso alla spalla, ridendo come se si forzasse.
“Cosa?” ho domandato. Mi sono spostato.
Rideva, mentre incollava i suoi occhi ai miei. Ho girato lo sguardo e ho aspettato che ridiventasse serio. Non sapevo perché ridesse. “Sei un mito!” ha detto piano.
“Perché?” ho chiesto.
“Ma chi ti s’incula” ha risposto. Sono rimasto zitto, non mi era chiaro cosa pensava… Poi siamo andati in centro, fino alla via principale. Un tizio girava in tondo con la Ferrari, sfrecciava ogni cinque minuti e investiva tutto ciò che si trovava davanti, le sedie di fronte al bar sulla piazza, ringhiere… Cioè, sbatteva in giro per il parco con quella macchina. Lo stava devastando senza riguardo. Era davvero una bestia. Mladen lo fissava come ipnotizzato. D’un tratto ha allungato la mano verso la Ferrari, quasi fosse un sonnambulo.
C’era una tale quantità di birra. Avevano fatto irruzione in un supermercato. Il gruppo si inondava di schiuma. Ho preso qualche birra e mi sono ritirato verso l’ingresso di un palazzo. Ho trovato una cassa e mi ci sono seduto. Mladen stava accanto alla strada. “Vieni a bere una birra, anche da qui si vede bene” ho detto. Sembrava che non avesse più intenzione di parlare con me. Ha commentato qualcosa a voce alta, ma non ho capito a chi si rivolgeva. La Ferrari passava a velocità sempre più folle. Come un toro che prende la rincorsa. Si esibiva in testa coda.
Un tizio si era arrampicato sul tetto di un chiosco e stava sparando una lunga raffica in aria. Le braci dell’incendio continuavano a covare, davanti ai fari della Ferrari è apparso il cavallo, quello nero con il cavaliere. Il motore della macchina rombava, borbottava, e il cavallo si è drizzato su due zampe. La raffica tagliava il cielo. Il tizio a cavallo per poco non è cascato. Ha gridato qualcosa. La raffica è cessata. Allora il cavaliere ha iniziato a sparare sulla Ferrari, i proiettili si conficcavano nella carrozzeria. Mi sono spostato più all’interno. Sono entrato. Non avevo la minima idea di dove mi trovassi. Fuori la sparatoria continuava. Non riuscivo a vedere più lontano del mio naso, non c’era elettricità. Ho scoccato la scintilla dell’accendino di plastica e sono entrato nel soggiorno di qualcuno. Ho guardato ancora una volta dietro di me, nel caso ci fossero stati problemi, l’uscita era a pochi metri. Mi sono buttato sul divano, ascoltavo gli spari ora sporadici e sorseggiavo la birra. Mi sono sdraiato su un fianco e ho pisciato sul pavimento. La mattina mi ha svegliato l’orologio a muro in corridoio, il pendolo dondolava, producendo un suono sordo. Ho afferrato il mio mitra automatico e ho svuotato un’intera raffica sull’orologio. L’ha avvolto il silenzio.
Oggi è venuto il vecchio di Mladen per chiedermi come sono andate le cose. I miei l’hanno accolto come un ospite importante. Abbiamo spento la televisione. Ci siamo seduti intorno al tavolo, con il caffè, il grappino e tutto il resto, in maniera dignitosa. Il padre di Mladen aveva la postura dell’uomo che sa portare il peso della tragedia. Mio padre mi guardava mentre diceva che eravamo rimasti insieme fino all’ultimo istante. Mio padre, in qualche maniera un pari del padre di Mladen. Loro due, li osservavo, erano proprio come mi ero sempre immaginato gli eroi. Intanto che raccontavo, mia madre si aggirava intorno e toccava certi oggetti – le tazzine, i quadri, il vaso, la tovaglia, il posacenere – come se tentasse di aggiustare qualcosa. Il padre di Mladen, un uomo grasso, soffiava fuori il fumo sotto i baffi scuri. Mio padre sbatteva le ciglia, adesso mi sembrava chiaro che non era mai stato soddisfatto di me. Non erano soddisfatti della storia che stavo raccontando. Sono usciti insieme, come alleati. Dopo la vecchia mi ha detto, sussurrando, anche se eravamo in cucina: “Ho sistemato tutto, non devi andare oggi”.
“Cosa?” ho chiesto.
“Ci sono altri che possono andare, ho sistemato le cose io” ha risposto sorridendo orgogliosa. L’orologio in corridoio ha cominciato a battere l’ora. Ho afferrato lo zaino e mi sono alzato. Il suo sorriso si è trasformato in una smorfia. All’uscita mi ha preso per un braccio. Mi sono girato e l’ho abbracciata in automatico. Il pendolo continuava a battere. Dondolava. Ho tolto le braccia da lei e mi sono voltato.
“Ma dove vai?”. Ha emesso un gemito e poi è scoppiata in un pianto incontrollato.
“Vado a vendicarmi!” ho detto furioso mentre scendevo le scale.
“Ma di chi? Della macchina che lo ha investito?” gridava alle mie spalle. Non l’ascoltavo più. Pensavo ad altro. Scendevo lungo la strada calmo e dritto, come se camminassi in un video al rallentatore, i movimenti erano ondulati e appesantiti. Come se qualcuno mi stesse riprendendo. Vado a vendicarmi, vado. Dopo circa duecento metri mi sono fermato. Mi sono fermato. Mi sono seduto sul muretto, armato. Mi guardavo intorno, tutto era completamente uguale, proprio uguale. Guardavo la nostra casa come se fosse lontana mille miglia, come se stesse sospesa sulla linea dell’orizzonte. Potevo sparare in qualsiasi direzione.Gioventù bruciata dell’Est
“DISASTRI” IN EX JUGOSLAVIA – “Sono fuori di testa” Il titolo del racconto inedito di Robert Perišić
DI ROBERT PERIŠIC
12 SETTEMBRE 2023
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Eravamo circa un migliaio in città. Solo noi. A volte si sentivano delle grida, come se avessero trovato qualcuno. Quando è tornato, Mladen era emozionato. “Pensa” ha detto “un tipo ha scovato una Ferrari in un garage. Come fanno ad avere la Ferrari, amico?”. Ha alzato gli occhi verso il cielo scuro. “Cristo, come fanno ad avere la Ferrari?” ha rivolto lo sguardo su di me. Era scioccato, rideva e scuoteva la testa. “Là, in centro, si stanno inculando la Ferrari” ha detto.
“E dov’è questo centro?” ho chiesto. Fino a quel momento pensavo che fossimo in centro.
“Ehi, amico!” ha detto e mi si è appeso alla spalla, ridendo come se si forzasse.
“Cosa?” ho domandato. Mi sono spostato.
Rideva, mentre incollava i suoi occhi ai miei. Ho girato lo sguardo e ho aspettato che ridiventasse serio. Non sapevo perché ridesse. “Sei un mito!” ha detto piano.
“Perché?” ho chiesto.
“Ma chi ti s’incula” ha risposto. Sono rimasto zitto, non mi era chiaro cosa pensava… Poi siamo andati in centro, fino alla via principale. Un tizio girava in tondo con la Ferrari, sfrecciava ogni cinque minuti e investiva tutto ciò che si trovava davanti, le sedie di fronte al bar sulla piazza, ringhiere… Cioè, sbatteva in giro per il parco con quella macchina. Lo stava devastando senza riguardo. Era davvero una bestia. Mladen lo fissava come ipnotizzato. D’un tratto ha allungato la mano verso la Ferrari, quasi fosse un sonnambulo.
C’era una tale quantità di birra. Avevano fatto irruzione in un supermercato. Il gruppo si inondava di schiuma. Ho preso qualche birra e mi sono ritirato verso l’ingresso di un palazzo. Ho trovato una cassa e mi ci sono seduto. Mladen stava accanto alla strada. “Vieni a bere una birra, anche da qui si vede bene” ho detto. Sembrava che non avesse più intenzione di parlare con me. Ha commentato qualcosa a voce alta, ma non ho capito a chi si rivolgeva. La Ferrari passava a velocità sempre più folle. Come un toro che prende la rincorsa. Si esibiva in testa coda.
Un tizio si era arrampicato sul tetto di un chiosco e stava sparando una lunga raffica in aria. Le braci dell’incendio continuavano a covare, davanti ai fari della Ferrari è apparso il cavallo, quello nero con il cavaliere. Il motore della macchina rombava, borbottava, e il cavallo si è drizzato su due zampe. La raffica tagliava il cielo. Il tizio a cavallo per poco non è cascato. Ha gridato qualcosa. La raffica è cessata. Allora il cavaliere ha iniziato a sparare sulla Ferrari, i proiettili si conficcavano nella carrozzeria. Mi sono spostato più all’interno. Sono entrato. Non avevo la minima idea di dove mi trovassi. Fuori la sparatoria continuava. Non riuscivo a vedere più lontano del mio naso, non c’era elettricità. Ho scoccato la scintilla dell’accendino di plastica e sono entrato nel soggiorno di qualcuno. Ho guardato ancora una volta dietro di me, nel caso ci fossero stati problemi, l’uscita era a pochi metri. Mi sono buttato sul divano, ascoltavo gli spari ora sporadici e sorseggiavo la birra. Mi sono sdraiato su un fianco e ho pisciato sul pavimento. La mattina mi ha svegliato l’orologio a muro in corridoio, il pendolo dondolava, producendo un suono sordo. Ho afferrato il mio mitra automatico e ho svuotato un’intera raffica sull’orologio. L’ha avvolto il silenzio.
Oggi è venuto il vecchio di Mladen per chiedermi come sono andate le cose. I miei l’hanno accolto come un ospite importante. Abbiamo spento la televisione. Ci siamo seduti intorno al tavolo, con il caffè, il grappino e tutto il resto, in maniera dignitosa. Il padre di Mladen aveva la postura dell’uomo che sa portare il peso della tragedia. Mio padre mi guardava mentre diceva che eravamo rimasti insieme fino all’ultimo istante. Mio padre, in qualche maniera un pari del padre di Mladen. Loro due, li osservavo, erano proprio come mi ero sempre immaginato gli eroi. Intanto che raccontavo, mia madre si aggirava intorno e toccava certi oggetti – le tazzine, i quadri, il vaso, la tovaglia, il posacenere – come se tentasse di aggiustare qualcosa. Il padre di Mladen, un uomo grasso, soffiava fuori il fumo sotto i baffi scuri. Mio padre sbatteva le ciglia, adesso mi sembrava chiaro che non era mai stato soddisfatto di me. Non erano soddisfatti della storia che stavo raccontando. Sono usciti insieme, come alleati. Dopo la vecchia mi ha detto, sussurrando, anche se eravamo in cucina: “Ho sistemato tutto, non devi andare oggi”.
“Cosa?” ho chiesto.
“Ci sono altri che possono andare, ho sistemato le cose io” ha risposto sorridendo orgogliosa. L’orologio in corridoio ha cominciato a battere l’ora. Ho afferrato lo zaino e mi sono alzato. Il suo sorriso si è trasformato in una smorfia. All’uscita mi ha preso per un braccio. Mi sono girato e l’ho abbracciata in automatico. Il pendolo continuava a battere. Dondolava. Ho tolto le braccia da lei e mi sono voltato.
“Ma dove vai?”. Ha emesso un gemito e poi è scoppiata in un pianto incontrollato.
“Vado a vendicarmi!” ho detto furioso mentre scendevo le scale.
“Ma di chi? Della macchina che lo ha investito?” gridava alle mie spalle. Non l’ascoltavo più. Pensavo ad altro. Scendevo lungo la strada calmo e dritto, come se camminassi in un video al rallentatore, i movimenti erano ondulati e appesantiti. Come se qualcuno mi stesse riprendendo. Vado a vendicarmi, vado. Dopo circa duecento metri mi sono fermato. Mi sono fermato. Mi sono seduto sul muretto, armato. Mi guardavo intorno, tutto era completamente uguale, proprio uguale. Guardavo la nostra casa come se fosse lontana mille miglia, come se stesse sospesa sulla linea dell’orizzonte. Potevo sparare in qualsiasi direzione.