la Repubblica, 11 settembre 2023
Pietrangeli si racconta
Questo brano è tratto dal libro “Se piove, rimandiamo. La mia vita”, di Nicola Pietrangeli con il nostro Paolo Rossi, in libreria per Sperling & Kupfer“
A diciotto anni era terminata la mia carriera calcistica. Ma con il calcio non ho mai chiuso, fondamentalmente. Molti anni più tardi, incontrando Tommaso Maestrelli e Bob Lovati, che avevo incrociato da giovane, quando entrambi erano ancora giocatori e adesso erano allenatore e vice della Lazio dello scudetto, non potei esimermi dal fare una battuta: «Ehi, mister, non è che potrei allenarmi un po’ con voi?». Non lo dovetti ripetere due volte. Maestrelli accettò senza neanche farmi finire la frase, e io mi ritrovai di nuovo con una prima squadra biancoceleste. A Tor di Quinto, tra l’altro, vicino a casa.
Ricordo il primo giorno che mi unii a loro: cominciai a scaldarmi a bordo campo, e nessuno mi parlava. Erano imbarazzati. Poi mi raccontarono che non sapevano se darmi del lei o del tu, non sapevano come passarmi la palla, nemmeno si avvicinavano. Da un certo punto di vista li comprendo: all’epoca io ero un tennista affermato e famoso, e vedermi lì deve averli scioccati, o magari emozionati. Io però ero lì per allenarmi, e volevo che mi considerassero un loro pari. Così dovetti dare una scossa alla situazione. «Oh, ragazzi, così mi fate sentire vecchio: almeno quando giochiamo a pallone, diamoci del tu!».
Be’, dieci giorni dopo i dialoghi erano invece di questo tipo: «A Nicò, e muoviti. Passa ’sta palla!». Quelle sessioni di allenamento durarono la bellezza di tre anni: avevo il mio posto nello spogliatoio, la mia divisa e, se arrivavo in ritardo, mi toccava pagare la multa, proprio come ogni altro giocatore, senza nessun trattamento di favore. Da quegli anni ho imparato tantissimo, oltre ai ricordi (uno su tutti? Maestrelli, per tenere buono Giorgio Chinaglia, che era un ribelle e non accettava mai di perdere, neppure in allenamento, lo distraeva facendogli tirare all’ultimo minuto un rigore inesistente), insegnamenti che si riveleranno preziosi per il mio ruolo di capitano della squadra italiana di Coppa Davis. E poi, signore e signori, per il calcetto. Che mi ha consentito di tenermi in esercizio anche a fine carriera.
Lo dico qui, senza tema di smentita: il calcetto lo abbiamo inventato noi. Noi chi? Quelli del vecchio circolo Parioli nell’inverno 1948-1949. Pioveva sempre e non potevamo giocare a tennis. Eravamo stufi di stare negli spogliatoi a fare nulla. «A ragà, ma che potemo fa?» E si accese una lampadina. Ci inventammo, come si faceva a scuola, un campo da calcio sul campo da tennis numero 9, piazzando le cartelle a mo’ di pali delle porte. Sbagliammo però la scelta del campo, troppo visibile agli altri soci che subito ci insultarono: «Come avete osato profanare in questo modo il campo centrale?» Manco fossimo stati a Wimbledon... Comunque, dopo averli fatti sfogare, pian piano li convincemmo a cederci un altro campo, in una zona più periferica del circolo. All’epoca esisteva qualcosa di simile nel mondo solo in Brasile, dove si praticava il futebol de salão, un calcio indoor. Noi inventammo quello outdoor. L’idea piacque così tanto che si attivò il passaparola per tutta la città e presto anche altri circoli copiarono l’iniziativa, come il Verbano, al quartiere Trieste, e il Tennis Roma a San Giovanni.
Il nostro modo di concepirlo era molto vicino al calcio a undici giocatori. Poi, negli anni Sessanta, arrivò «Babbo» Valiani e, con i suoi trucchetti, cambiò le carte in tavola introducendo anche i professionisti e, per come la vedo io, tutto l’antico fascino sparì.
Noi usavamo il pallone grande e le scarpette da tennis Superga. Battevamo il fallo laterale con le mani. Dal Parioli ci spostammo al vecchio cinodromo della Rondinella, che stava a fianco del campo. E sapete cosa accadeva? Che alcuni giocatori della Lazio, ma talvolta anche calciatori della Roma, si divertivano a unirsi alle nostre partitelle...
Noi, al Parioli, avevamo come soci il portiere della nazionale Giuseppe Moro, poi c’era un certo Gunnar Nordahl, il centravanti del Milan che nel 1956 passò alla Roma, e Mario David, difensore della nazionale. Riguardo a quest’ultimo ho ancora davanti agli occhi un trafiletto del Corriere dello Sport: «David infortunato, non potrà partecipare all’allenamento», mentre invece veniva a giocare con noi... e qualche volta vincevamo noi dilettanti. Perché loro si divertivano a tirare da metà campo, e i portieri avevano gioco facile. Gli arbitri, poi, abituati al campo grande, interpretavano male i movimenti lasciando correre il gioco pesante.
Oggi il calcio a cinque lo definirei il «trionfo delle pippe»: proprio come nel padel, dove pensano di giocare bene e invece... però il calcetto devo ringraziarlo, anche dopo aver cambiato circolo ed essere passato al Canottieri Roma: mi ha consentito di fare incontri e conoscenze. Abbiamo organizzato tante sfide, e lasciamo perdere i risultati, che non erano la priorità. Ho visto «calcettare» magnificamente Garrincha, Bruno Giordano, D’Amico. Proprio Vincenzino, con le sue finte estrose, mi metteva letteralmente a sedere. Invece Bruno non lo fermavi e Garrincha era una meraviglia artistica. Io ero attaccante, e quando giocavo io il centravanti non tornava in difesa.
Poi, con l’avanzare dell’età, ho cominciato a indietreggiare: prima mezzala e poi in difesa, come libero. Mi salvava l’essere ambidestro e avere una buona visione di gioco. In porta però non ho mai giocato. Ero innamorato perso della palla. E quante «coppe de carcetto»: eh sì, ho disputato diverse edizioni della Coppa dei Canottieri, con il Circolo Canottieri Roma.