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 2023  settembre 11 Lunedì calendario

Intervista a Victoria Fante. Parla di suo padre

Victoria Fante – per gli amici Vicky – non aveva nemmeno tre anni quando, nel 1952, si trasferì con la famiglia da Los Angeles a Malibu, in una vasta tenuta nel verde. Non poteva sapere che quel radicale cambio di vita era dovuto a un romanzo scritto da suo padre: Full of Life, una meravigliosa (e autobiografica) dichiarazione d’amore alla vita che John Fante scrisse prima di un lungo silenzio che sarebbe durato fino agli anni Settanta. «Non mi rendevo conto che la fama di mio padre stava crescendo – racconta al Corriere —, però in quella casa, da noi ribattezzata Rancho Fante, sono stata felice. Sono cresciuta giocando con i cani e con altri animali, ho nuotato nella piscina, ho guardato mio padre trascorrere intere mattinate nel campo da golf prima di rientrare, come ogni giorno, nel suo studio a scrivere».
Victoria Fante Cohen vive tuttora a Malibu ma viene spesso in Italia, dove il culto di suo padre, scomparso esattamente 40 anni fa, è molto vivo. E non solo nel John Fante Festival (che si tiene ogni agosto a Torricella Peligna, in provincia di Chieti, paese natale del padre dello scrittore). La incontriamo mentre è a Roma di passaggio, bionda e bella come sua madre, Joyce Smart, la donna con la quale John ha avuto quattro figli.
Lei è l’unica femmina.
«In una lettera inviata a sua madre Mary prima di sposarsi con mamma, papà confessava di temere una famiglia composta di sole donne. Infatti con i miei fratelli, specie con Dan e Jim, trascorreva molto tempo praticando sport maschili. Il golf, appunto, ma anche e soprattutto il baseball, perché era un grande fan dei Dodgers e al liceo era stato un discreto lanciatore».
Però il legame delle figlie femmine con il padre è speciale. Ci racconta il suo?
«Glielo racconto con un aneddoto. Ero giovane e insicura, mi fidanzai con un ragazzo, ma non ero felice. Non lasciavo trapelare nulla in casa, però papà se ne accorse. Venne da me e mi disse: “Non sei obbligata a fare nulla, voglio solo che tu stia bene”».
Era pur sempre lo scrittore che ha raccontato Arturo Bandini, di inquietudini se ne intendeva...
«Vede, spesso gli scrittori sono persone distanti. Non dico anaffettive ma quasi. Un isolamento emotivo a volte è necessario per produrre grande letteratura. Mio padre non era così, voglio dirlo forte perché tante sono le voci sbagliate sul suo carattere. Era amorevole, presente, gentile».
Quando il «Los Angeles Times» ha ospitato un articolo di J. R. Moehringer in cui suo padre veniva descritto come «fortemente incline all’alcol» lei ha protestato.
«Non l’ho mai visto ubriaco. Beveva qualche volta a tavola, ma niente altro. Ricordo, piuttosto, un uomo dotato di grande disciplina: si metteva alla scrivania e si concentrava sul lavoro. Che fosse un romanzo, o un racconto o una sceneggiatura per il cinema».
Com’è stato essere la figlia di uno scrittore simile?
«Noi figli ci siamo dovuti abituare presto a una religiosa liturgia del silenzio in certe ore del giorno, perché “papà sta lavorando”, diceva mamma. Sapevamo che in quelle ore ci era proibito fare qualunque capriccio, però poi venivamo ricompensati».
Come?
«Poteva anche cadere il mondo ma ogni sera la nostra famiglia si radunava intorno alla tavola. E, prima o dopo la cena, papà ci leggeva quello che aveva scritto nel pomeriggio. Era una sensazione strana, magica. Io e Jim, i figli più piccoli, non capivamo del tutto il significato profondo delle sue parole. Oggi, infatti, ho un solo grande rimpianto».
Quale?
«Aver parlato poco con mio padre della sua scrittura. Oggi avrei tante domande da fargli: com’è nato il personaggio di Bandini, quanto di autobiografico c’è nella sua opera, come faceva a scrivere le short stories, le mie preferite, con quella particolare capacità di illuminare la realtà grazie a poche, studiate, parole. Oggi gli chiederei com’è nato La confraternita dell’uva, quel folgorante ritratto della prima generazione italoamericana».
L’immagine stereotipata della famiglia americana del secondo Dopoguerra ci restituisce un padre impegnato negli affari e una madre completamente assorbita dalla famiglia. È stato così anche nel Rancho Fante?
«No e glielo dimostro ancora una volta con un aneddoto. Avevo sedici anni, un’età difficile per tutti. Un giorno, dopo un litigio con mia madre, scappai di casa. Niente di sovversivo, raggiunsi una mia amica e passai la notte da lei. Non c’erano i cellulari e la mia famiglia cominciò a preoccuparsi seriamente. Papà ad un certo punto uscì per cercarmi. Bussò alle porte delle case dei miei amici fino a quando mi trovò. Mi riportò a casa e senza fare scenate mi disse, semplicemente: “Tua madre è stata molto male a causa del tuo colpo di testa. Voglio che tu sappia una cosa: io ho scelto lei come compagna di vita, dunque la prossima volta che ti comporterai in questo modo, io sceglierò di stare vicino a lei e manderò te in collegio”. Queste parole furono una grande lezione di vita, di amore e di scelte coniugali. Oggi, che a mia volta sono moglie e madre, capisco meglio il peso delle relazioni».
I personaggi letterari di Fante sono impulsivi, a volte istrionici. Mi racconta un gesto istintivo di suo padre?
«Istintivo, ma anche affettuoso. Io da ragazza ero una grande amante delle scarpe. Un giorno mi accompagnò a fare shopping e io ne scelsi un paio che mi piaceva particolarmente. Lui, d’impulso, decise di comprarmi quel paio in tutti i colori disponibili».
Le scriveva lettere?
«Le racconto quella più commovente. Ero molto piccola e desideravo un cavallo. Non me lo disse a voce ma mi lasciò un biglietto dove si leggeva: “Cara Vicky, questa è una piccola lettera su qualcosa di grande. Sì, puoi avere il cavallo. Dad”».
Quanto e come si sentiva italiano?
«Lui non solo si sentiva italiano, ma aveva capito quel misto di ambizione e paura che caratterizzava tanti immigrati provenienti dall’Abruzzo o dal Molise o dal Veneto. Ha dato voce a un tempo fatto di pionieri e forse è per questo che oggi la sua scrittura viene paragonata a quella di Fitzgerald o a quella di Caldwell».
Leggendario è anche il legame con Mary Capolungo, madre di John e sua nonna.
«Quando papà parlava con lei si trasformava. Non solo perché cominciava a parlare in italiano (Mary era figlia di un sarto lucano, ndr), ma anche perché cominciava a gesticolare. Non era una caricatura, non voleva esserlo. Era un immergersi in un’altra lingua, un’altra cultura».
Quella della saga Bandini.
«Ecco perché la sua opera per me non è banalmente autobiografica, ma ha un alto valore letterario. Attingendo alla Storia, ha definito un modello universale, quello delle persone che si spostano e che si trovano a dover costruire una vita in un luogo nuovo».
Lei ha vissuto tutta la parabola letteraria di suo padre: i primi libri, il silenzio, la scrittura per il cinema, la folgorazione di Charles Bukowski che ne fece, negli anni Ottanta, un autore di culto postumo.
«Bukowski lo amava moltissimo, lo definì “il mio dio”. Mio padre invece adorava Fitzgerald: ero ragazza quando mi donò Il grande Gatsby, cambiandomi la vita».
Gli ultimi tempi della vita di John Fante sono stati molto difficili. A causa del diabete fu colpito dalla cecità e dovette subire anche l’amputazione delle gambe. Il ricordo più difficile?
«Il ricordo più difficile è anche il più toccante. Andai a trovarlo in ospedale, stava male e non vedeva più nulla. Mi chiese di descrivergli che giornata c’era là fuori. C’è il sole, gli risposi, gli alberi sono in fiore e c’è profumo di primavera. “Allora vattene”, mi disse, “Voglio che tu esca da questo posto e che vada a goderti ogni attimo di questa giornata”. Non le sembra un gigantesco atto d’amore?».