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 2023  settembre 11 Lunedì calendario

Intervista a Dan Peterson

Dan Peterson dall’Illinois, Stati Uniti. Sbagliamo se la inseriamo nei nostri ritratti di «Italiani»? Facciamo un sopruso?
«No, affatto, mi sento italiano: 3 settembre 2023, sono 50 anni che vivo in Italia, arrivai a Bologna nel ’73 dal Cile, dove allenavo la Nazionale e stava scoppiando il colpo di Stato, per allenare la Virtus. Parlo e scrivo in italiano, credo di aver detto più parole in italiano che in inglese, anche se il mio accento è rimasto quello del ’73».
Guai a lei se dovesse venirle in mente di correggere questo accento Petersoniano.
«Non posso farcela, io sono fatto e parlo così. Quanto a sentirmi italiano voglio aggiungere una cosa...».
Dica pure.
«Che mi sento anche molto milanese. Ci arrivo nel ’78, quando mi ingaggia l’Olimpia e scelgo di viverci quando smetto di allenare nell’87. La nostra casa a Città Studi, un tempo vicina alla sede dell’Olimpia, comodo anche l’aeroporto, Linate, la Gazzetta dello Sport, il mio giornale, la televisione a Cologno Monzese. Poi vogliamo parlare di Brera? Resta la zona dove l’Unesco, per la sua bellezza, può mettere il suo quartiere generale. Non sono tifoso, ma mi piacciono e seguo con affetto Milan e Inter: sono molti i miei lati milanesi». Interviene la moglie Laura Verga, signora in tutto, per finezza di pensiero ed eleganza, davvero ammirevoli. Ride Laura: «Sa quando Dan è americano? Quando si veste da solo. Può mettere insieme qualsiasi colore». Conferma Dan: «Purtroppo ha ragione mia moglie, anche stamane dalla mia camera la invocavo: Laura quale camicia mi devo mettere per andare al Corriere della Sera?».
Negli anni come è cambiata la vita milanese? Migliorata? Peggiorata?
«Cambiata sicuramente, ma noi ci stiamo bene».
Perché non ha mai guidato?
«Meglio così, ho evitato un pericolo ai milanesi. Poi a Milano sono impazienti, hanno il clacson facile con chi non guida bene e veloce».
Si è anche sposato a Milano, due volte con Laura: la prima a Miami e la seconda appunto nella chiesetta di Assago.
«Una bella cerimonia a distanza di 20 anni dal primo matrimonio di Miami a casa di Bob McAdoo. Nella chiesa di Assago c’erano quasi tutti i miei giocatori».
Dino Meneghin testimone.
«Il più grande giocatore italiano che io abbia allenato: un vincente. Poi se c’è lui, c’è la squadra, la fa Dino con il suo esempio, un leader che tratta tutti allo stesso modo, dalla star al più giovane. Io l’ho definito “la locomotiva”. Fedele a questo soprannome, al mio compleanno me ne ha regalata una, un modello di locomotiva bellissimo».
Il suo podio dei giocatori che ha allenato: dopo Meneghin chi c’è?
«Mike D’Antoni l’oriundo più forte, Bob McAdoo lo straniero».
Valerio Bianchini il suo grande rivale come allenatore era in chiesa anche lui il giorno del suo matrimonio.
«Siamo veri amici. Anche se al segno della pace, all’invito del prete che celebrava la messa ha fatto una battuta meravigliosa: eh no, questo è troppo, chiedere la pace a me e Dan. Avversari in campo, in panchina, sui giornali, tra noi polemiche vivaci, ma amici nella vita. Oltre a Valerio Bianchini ho avuto altri rivali importanti, Sandro Gamba, Arnaldo Taurisano, Boscia Tanjevic. Sapevano sempre come mettermi in difficoltà».
Segue il basket, ne scrive come editorialista sulla Gazzetta dello Sport. Ma è vero che quello di adesso non le piace più come prima?
«Lo seguo e lo studio attentamente. Non è che mi piaccia meno, dico solo che è cambiato, ai miei tempi si copriva di più tutto il campo, c’era meno tiro da tre e meno pick and roll (fase di gioco che libera il compagno al tiro da fuori) e più gioco complessivo».
Cosa le è venuto in mente di ritirarsi a soli 51 anni? Perché ha smesso di allenare così presto?
«È stato l’errore più grande della mia vita». Non è di questa idea la moglie Laura: «Non è vero e tu Dan lo sai: si sono aperte molte altre strade».
Vero anche questo: televisione, pubblicità, comunicazione. Dan Peterson spiega iniziando da «Well» (bene), l’unica americanata che si permette nel suo ricco e raffinato eloquio: «Well, ero giunto alla fine, ero molto stanco, anche un po’ esaurito. Non volevo poi tenere in ostaggio la mia società, l’Olimpia Milano, costringerla ad aspettare, almeno un mese, la mia decisione. Così ho scelto di smettere».
Ed è iniziato il Dan Peterson show, televisione e pubblicità. La gente si è innamorata delle sue telecronache e dei suoi spot.
«In pubblicità mi hanno lasciato libertà, ho avuto spazio per essere me stesso, in tv certe battute le ho adattate e “rubate” dal mondo televisivo americano».
Come quando diceva «mamma butta la pasta...»?
«Sì, ho sentito una cosa simile da un telecronista americano, ma lui a partita quasi finita, ormai scontata, parlava di caffè. Essendo in Italia io ho preferito adattare quel finale alla pasta, piatto che mi sembrava più adeguato».
E con il tè Lipton è diventato addirittura una icona.
«Lavoro di squadra tra autori che mi hanno permesso libertà di interpretazione: così nasce quel “tè Lipton per me numero 1...».
Lei ancora adesso fa conferenze in giro per l’Italia, la chiamano società, aziende, gruppi imprenditoriali: cosa insegna?
«La sessione più richiesta è “team building”, come si costruisce una squadra vincente».
È vero che una parte molto apprezzata è quando lei si intrattiene sul linguaggio degli indiani?
«Ho studiato il linguaggio degli indiani d’America, quello dei segni, faccio degli esempi, rappresentano una sintesi molto efficace e fanno sempre un certo effetto».
Lei alle sette di mattina è già al computer che scrive pezzi, riflessioni, ha un seguito che va dall’Italia agli Usa.
«Fosse per me mi alzerei prima, ma mia moglie ha imposto le ore 7. Io preparo la sera prima quattro pezzi in inglese e in italiano che invio la mattina per mail».
Spazia un po’ su tutto, dallo sport al sociale alla politica. Sono scritti molto interessanti.
«Io sono un non politico, non sono mai stato iscritto a un partito, non voto da circa 20 anni. Ho alternato le mie preferenze scegliendo più l’uomo, il candidato, recentemente bisogna ammettere che non ci sia granché da scegliere».
Abbiamo capito: il presidente Joe Biden non le piace.
«Credo che il buon senso debba consigliargli il passo indietro, invece lui insiste, nonostante non ne faccia più una giusta, non indovina più un nome, si confonde spesso».
L’alternativa pare sia Donald Trump.
«Lui è mister più e mister meno, capace di fare qualsiasi cosa. È diventato presidente degli Stati Uniti vincendo contro ogni pronostico, battendo la favoritissima Hillary Clinton. Poi non è riuscito a mantenere le promesse fatte, sbagliando ha cavalcato i social, rispondendo alle critiche con i tweet».
Le prossime elezioni Usa: voterà stavolta?
«Ribadisco: io scelgo la persona. Chi viene eletto deve capire che deve abbandonare l’ideologia e governare, amministrare. Si deve confrontare con i bisogni della gente. Io da cittadino ne ho quattro: 1, sicurezza internazionale, non voglio per esempio che la Russia sia in grado di attaccare i nostri confini. 2, sicurezza interna. 3, solidità economica e finanziaria. 4, creare infrastrutture e servizi per il cittadino: autostrade, ponti, trasporti, scuole, università, ospedali. Capito perché detesto l’ideologia, è questa tendenza che mi ha fatto schiacciare il pulsante off quando si deve votare».
Ideologia e social sono i nemici di chi governa?
«Succede anche in Italia, a Giorgia Meloni per esempio: c’è la tendenza sui social al massacro. Non mi piace».

Se Biden si ricandida a 82 anni, può farlo anche lei che ne ha 87.
«Well, io sono messo meglio del Presidente degli Stati Uniti. Non sbaglio nomi, non mi confondo ancora. A 87 anni sono solo un po’ più lento: l’altro giorno camminavo e una signora passandomi di fianco mi ha superato. Mi sono detto: ehi Peterson cerca di andare più veloce...».