Corriere della Sera, 11 settembre 2023
L’ultima verità su Jfk
A 60 anni dall’assassinio di John Kennedy un nuovo libro di memorie fa vacillare la tesi della «pallottola magica» sostenuta dalla Commissione Warren: quella che indagò sull’uccisione e sostenne che a sparare fu solo Lee Oswald, appostato in cima a un edificio di Dallas davanti al quale transitò la limousine scoperta del presidente. Quel giorno, 22 novembre del 1963, Jfk fu ucciso (e il governatore del Texas, John Connally, fu ferito) da due proiettili sparati contro il corteo presidenziale. Secondo la ricostruzione ufficiale Kennedy fu colpito due volte e Connally riportò varie ferite. Per la commissione Warren il primo proiettile (calibro 6,5, sparato da un fucile C2766) passò attraverso la gola di Kennedy e poi trapassò una spalla, il petto e un polso del governatore fermandosi su una coscia. Per questo da allora i tanti scettici, convinti che ci sia stata una seconda persona a sparare da un’altra direzione, parlano di «pallottola magica».
Ora in loro aiuto arriva la testimonianza di Paul Landis, un agente del secret service che quel giorno seguiva, in piedi sul predellino di una Cadillac, l’auto del presidente. In un libro di memorie intitolato L’ultimo testimone che verrà pubblicato negli Stati Uniti il 10 ottobre, l’88enne Landis sostiene che quel giorno sentì l’esplosione di tre colpi, non due. E poi rivela di aver raccolto lui, sul sedile dell’auto presidenziale, la «magic bullet», per evitare che fosse rubata da qualche cercatore di souvenir macabri, e di averla deposta sulla barella sulla quale era il corpo di Kennedy. Affermazione non da poco, se vera, visto che, secondo gli atti della Warren, la pallottola fu trovata sulla barella di Connally, non di Jfk, e per questo i periti ritennero che fosse la causa delle ferite del governatore.
Landis è considerato da tutti una persona seria, non ha mai creduto a teorie cospirative sulla morte di Kennedy, ed è sempre stato convinto che Oswald sia stato l’unico a sparare. Ma la sua ricostruzione, ora diversa, fa acqua da vari punti di vista, come nota sul New York Times lo stesso Peter Baker, il capo dei corrispondenti dalla Casa Bianca, che lo ha intervistato e ha anticipato i contenuti del libro.
Intanto quanto l’ex agente scrive oggi è in contrasto con la testimonianza che lui rese dopo l’attentato: sostenne di aver sentito solo due colpi e non tre, non citò mai la storia della pallottola rimossa e disse che nella «trauma room» nella quale giaceva Jfk morente entrò solo Jackie Kennedy. Lui rimase fuori: se fosse vero non avrebbe potuto depositare la pallottola sulla barella.
Oggi dice che in quei giorni era sconvolto (non dormì per cinque notti): forse ricostruì i suoi ricordi in modo superficiale e impreciso. Ma potrebbe essere, invece, la sua memoria a tradirlo, 60 anni dopo. L’altro dubbio riguarda i suoi mancati interventi per tentare di correggere la commissione Warren: sostiene che gli investigatori non lo chiamarono mai a testimoniare e lui, che nel frattempo si era dimesso dal secret service, non lesse il rapporto conclusivo. Solo una decina d’anni fa si rese conto di come stavano le cose, ma ebbe paura ad esporsi: potevano accusarlo di aver rimosso elementi essenziali dalla scena del crimine. Una storia con molte aree grigie che farà discutere e riporterà alla ribalta la tesi del secondo killer. Ma il caso non sarà, per questo, riaperto.