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 2023  settembre 11 Lunedì calendario

Elogio di un necrologio

Anche un necrologio può farti pensare. Sia che vi si trovi la retorica del caro estinto sia che vi si celebri il rito del “c’eravamo tanto amati”. In questi giorni mi è capitato di leggerne uno su un foglio locale dell’Appennino piacentino. Non per caso. Ma perché me l’ha mandato l’autrice, mia studentessa degli anni Ottanta e madre di un mio studente degli anni Dieci. È una lunga lettera aperta in memoria di sua madre, “Maria Monfasani ved. Leonida”, che aveva amato tutta la vita la Resistenza e la Costituzione. Una donna arrivata oltre i novanta con una gerla immensa stracolma di ricordi: sociali, politici, civili e soprattutto umani. Ecco, leggere questo speciale necrologio mi ha colpito. Non solo per le frasi di affetto che vi si trovano quasi naturalmente. Ma anche e soprattutto per questo passaggio stupendo: “grazie per averci cresciuti a pane e storie”.
Proprio così: “Pane e storie”. Pensiamoci. Abbiamo sentito dire che si può essere allevati “a pane e acqua”, “a pane e botte”, “a pane e libri”, o “a pane e amore”. Ma l’espressione “pane e storie” è la prima volta che la sento. La signora Maria ne conosceva centinaia di quelle storie d’Appennino, cresciute tra Ceci e Vaccarezza, frazione di Bobbio. O scivolate ai bordi del centro abitato. Aveva conosciuto le lacrime e i sorrisi, gli arrivederci e gli addii, le feste e i dolori, la guerra e la pace. Generazioni di bambini che si fanno adulti e poi invecchiano. Tutti parte intima della sua vita, in proporzione alla sua abitudine a condividere bisogni e sentimenti con gli altri, in una conca dove “ci si aiuta e ci si prende cura uno dell’altro”, e in cui, ancora oggi, “le porte sono sempre aperte e la difficoltà di uno è ancora quella di tutti”. Tutte sue, di lei “sempre attenta alla tapparella del vicino che al mattino non trovasse alzata”. Veniamo così a sapere che la grande nonna di Vaccarezza, luogo di dodici abitanti ma con una certa vitalità culturale (anche una rassegna di libri), quelle storie le raccontava, e poi le raccontava ancora, e non solo alle figlie Anna e Matilde. Ma ai parenti, agli ospiti, ai viandanti, perché nulla ne andasse perduto. Perché senza racconto non c’è memoria, mentre noi fissiamo giornate della memoria a raffica, ma non raccontiamo quasi più nulla. Noi guardiamo. E se parliamo recitiamo. Il racconto che dà un senso alla storia, che unisce e intreccia le vite e che con le sue libere reinterpretazioni genera piccoli e grandi capolavori letterari, scritti o orali, resta fuori dalle nostre abitudini e dalle nostre stesse tavolate. Lei vi educò invece le figlie e i nipoti.
Mi sono gradualmente convinto che la stessa legalità possa essere difesa, come dimensione morale collettiva, anche con la forza del racconto, del “c’era una volta”. La signora Maria ne ha fatto una costante del suo modello educativo concreto, sapendo che ognuno di noi è in fondo un deposito, anzi un giacimento infinito di memorie spesso destinate a dissolversi con noi nel momento del nostro addio al mondo. Oggi che Vaccarezza ha un’ “abitante vedova” in meno, mi piacerebbe che i racconti della signora Maria si levassero in blocco per viaggiare verso i luoghi – spesso misteriosi – dove la memoria riannoda sé stessa. Che in modo più o meno perentorio giungesse ai bambini che nascono dove ancora ci si aiuta (o dove non ci si aiuta più) la sua esortazione a “studiare perché il sapere rende l’uomo libero”, l’invito a portare al di là “dell’ombra del Monte Penice” “parole, valori, cose per cui vale la pena”. Vedete come poche parole sbalzate dall’anima della lunga, profonda storia di una frazione dell’Appennino possano suscitare fantasie e malinconie, e anche rinnovare consapevolezze civili. Perché quello delle frazioni montane sarà anche “il mondo dei vinti”, per usare l’amara espressione di Nuto Revelli, ma contiene invisibili fermenti di vita anche per la famosa società liquida.