Corriere della Sera, 10 settembre 2023
Gli eroi di Battista
Il nuovo libro di Pierluigi Battista è un vertiginoso inno alle «anime belle». A tre intellettuali, che l’autore definisce fin dal titolo «i miei eroi», ostinatamente capaci di restare integri negli anni «più bui e incandescenti e tragici che hanno insanguinato il Novecento» e per questo biasimati e accusati di «diserzione». Un omaggio-tributo, in uscita il 12 settembre per La nave di Teseo, ad Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell. Più varie incursioni nel racconto delle vite, degli amori e dei tradimenti, delle liti e delle scazzottate, delle bassezze e delle grandezze di un’ampia compagnia di altri «irregolari» come loro: Mary McCarthy, Simone Weil, Nicola Chiaromonte, Walter Benjamin, Arthur Koestler. Tutta gente – scrive Battista – renitente alla «leva ideologica» dei totalitarismi, che si è rifiutata di subordinare «ogni remora morale al perseguimento di un obiettivo sovrumano: rifare la natura degli esseri umani».
L’«anima bella», nata nell’atmosfera romantica e celebrata da Goethe, è diventata da Hegel in poi un epiteto: «Avendo la Storia preso il posto di Dio, chi le si fosse messo contro, intralciandone il cammino scandito da inevitabili ma salvifici delitti con dubbi, contestazioni, distinguo o addirittura resistenze morali» si attirava l’accusa di mettersi «in fuga davanti al destino», rivelandosi «incapace di agire nel mondo, sterile, inutile peso a carico di chi invece intendeva servire la Storia». Nella migliore delle ipotesi, dunque, «uno sciocco sprovveduto, un illuso, un acchiappanuvole, un narcisista che mette sé stesso su un piedistallo, un ingenuo rompiscatole, un ipocrita che usa la purezza come pretesto per giustificare il proprio disimpegno. Nel peggiore dei casi… un nemico oggettivo».
Prendiamo Albert Camus. Nel 1957 va a Stoccolma a ritirare il Nobel. Ci va di malavoglia. Perché la tubercolosi non gli dà tregua. E perché «l’etichetta della cerimonia gli impedisce di presentarsi, insieme alla moglie Francine, anche con l’amante di una vita Maria Casarés e con la nuova fiamma Mi, di ventidue anni più giovane». Fatto sta che durante un incontro pubblico uno studente algerino gli chiede perché è reticente sulla guerra d’Algeria. Lui risponde che non lo è, di essere stato e di continuare a essere «fautore di un’Algeria giusta, sostenitore di una riparazione plateale e totale nei confronti di un popolo di cui ho preso le difese per tutta la vita». Poi aggiunge: «Ma ho sempre condannato un terrorismo che viene esercitato ciecamente e un giorno può colpire mia madre e la mia famiglia. Credo alla giustizia, ma prima della giustizia difenderò mia madre». Basta questa frase, questa nota personale di un «pied-noir» i cui familiari vivevano in Algeria, per procurargli un coro di sdegnate reazioni: «Il filosofo della giustizia si prende gioco della giustizia e ad essa preferisce sua madre», scrive con sarcasmo il direttore di «Le Monde». Come puoi mettere la sorte di un parente davanti alla «grandiosità spietata della Storia»? E invece quella frase – scrive Battista – lungi dall’inficiare l’impegno di Camus in difesa del popolo algerino, «voleva dire che esiste un punto di arresto, un’intimazione morale a fermarsi un centimetro prima dell’abisso, un rifiuto di cadere nel precipizio dell’orrore dove l’inviolabilità delle persone viene azzerata e la giustizia si ritorce nel suo opposto». Ai «censori che hanno sempre collocato la propria poltrona nel segno della Storia», Camus non cederà: «Voglio lottare per la giustizia. Non per la punizione degli uni e la vendetta degli altri».
Oppure prendiamo George Orwell, un altro per cui «tradire la propria appartenenza per non tradire sé stesso era un abito naturale». Andò a combattere nella guerra civile spagnola «da solo, cane sciolto, non affiliato ad alcuna compagine politica». Gli capita di vedere un fascista che sta balzando fuori da una trincea per sfuggire a un improvviso bombardamento. Non aveva avuto «il tempo di vestirsi, si reggeva i pantaloni con ambedue le mani», racconta. Lui può sparare, abbatterlo con facilità, ma non lo fa: «Ero venuto per colpire un fascista, ma un uomo che si regge i pantaloni che stanno per cascargli non è un fascista, è evidentemente un nostro simile, e questo pensiero mi tolse ogni desiderio di sparargli». Battista commenta: «La lezione dei miei tre eroi culturali è il rispetto degli esseri umani nella loro concretezza, e non come materiale da sacrificare nel nome di un fine superiore».
Dall’altra parte della barricata c’è invece Brecht, che scrive: «Abbraccia il boia ma trasforma il mondo, ne ha bisogno». C’è Sartre, che in Le mani sporche fa dire a uno dei protagonisti: «Come tieni alla purezza, ragazzo! Come hai paura di sporcarti le mani! Voialtri trovate la scusa per non fare nulla… io, le mani le ho sporche. Le ho affondate nel sangue e nella merda fino ai gomiti». Ecco il «ricatto morale che le anime belle respingono con fierezza». Orwell si sdegnò con W.H. Auden per due strofe della poesia «Spain» sull’«accettazione consapevole della colpa per l’assassinio necessario». Per lui l’assassinio non poteva mai essere necessario. Rifiutava ciò che Finkielkraut ha definito l’«idealismo della crudeltà». Detestava Ezra Pound per la sua infatuazione fascista, ma si batté contro chi voleva negargli un premio letterario per le sue sbandate politiche: «La caccia al traditore è una delle cose più moralmente disgustose che ci lascia in eredità la guerra».
E infine Hanna Arendt, l’autrice dell’«analogia sacrilega», perché nelle Origini del totalitarismo ha osato includere nella stessa categoria sia il nazismo, da cui era fuggita perché ebrea e che le strappò la cittadinanza tedesca, sia il comunismo. Definita una «propagandista della guerra fredda» per non aver accettato «una gerarchia di accettabilità tra le fosse comuni» e tra i lager. Scomunicata e ostracizzata per il suo reportage sul processo Eichmann a Gerusalemme, dove era andata per capire i meccanismi profondi dell’abiezione e aveva visto ciò che le appariva essere «la banalità del male». Dissero che con quel libro aveva dimostrato di «odiare il suo popolo», di aver «calunniato le vittime e scagionato le SS», di aver reso Eichmann «accettabile». L’Anti-Defamation League invitò i rabbini d’America a predicare contro il libro per il Capodanno ebraico. Golo Mann ne sconsigliò preventivamente la pubblicazione stessa. Il settimanale francese «Nouvel Observateur» si chiese: «Est-elle nazie?». Addirittura. Barbara Tuchman toccò l’apice, chiamando la Arendt «Hanna Heidegger». Sosteneva che la scrittrice aveva difeso Eichmann, e che l’aveva fatto per proteggere Heidegger, il suo professore di filosofia e amante segreto, del quale aveva disprezzato il sostegno al nazismo, ma che non era mai riuscita a smettere di amare e desiderare. Perché anche le anime belle – chiosa Battista – «sono anime piene di contrasti, sono volubili e testarde allo stesso tempo, si contraddicono, sono infelici, ambigue, complicate». Ma ci hanno insegnato a «non permettere mai che i sogni di un mondo perfetto ci distolgano dalle rivendicazioni degli uomini che soffrono qui e ora» (Karl Popper).