Corriere della Sera, 10 settembre 2023
Intervista a Lili Gruber
Lilli Gruber, domani lei ricomincia. Che anno sarà?
«È un anno di campagna elettorale per le europee di giugno, quindi sarà un anno cruciale per capire dove sta andando l’Italia di Giorgia Meloni e qual è la vera natura del potere di questa destra al governo. E anche per capire se l’opposizione sarà in grado di costruire una vera alternativa».
Un anno fa la Meloni vinceva le elezioni e diventava la prima donna presidente del Consiglio. Lei in passato l’ha avuta ospite più volte, e talora vi siete un po’ scontrate. Che tipo è? Umanamente come la trova?
«Di sicuro non è una underdog, ma una politica abile che ha costruito la sua carriera in anni di militanza e Parlamento. Ora è presidente del Consiglio, ma ugualmente vive costantemente sulle barricate: in tempi così critici avremmo bisogno di non dividere il Paese in amici e nemici. Sembra le risulti difficile togliersi l’abito della comiziante d’opposizione per mettersi quello istituzionale di premier».
Ma qual è finora il suo bilancio politico?
«È un giano bifronte: su politica internazionale, Nato e conti pubblici ha le mani legate, e quindi si muove in continuità con i precedenti governi, come in sostanza anche nei rapporti con l’Europa. Siamo lontani dalla propaganda sovranista di quando stava all’opposizione. Sul fronte interno invece cavalca i temi identitari di una destra reazionaria».
Le si rimproverano sia il familismo, sia la difficoltà a prendere le distanze dalla storia missina.
«Basterebbe che il 25 aprile dicesse che l’antifascismo è un valore fondante della Repubblica italiana per chiudere la questione una volta per tutte. Forse teme di perdere consensi o di rinnegare la sua storia di militanza nel Movimento sociale, un partito apertamente neofascista. Quanto al familiare, è sempre un segnale di debolezza quello di privilegiare la fedeltà alla competenza».
Lei Gruber è stata molto critica con Giambruno, ma la Meloni cosa poteva fare?
«La politica è anche capacità di prevenire i problemi. Giorgia Meloni doveva avvertire il suo compagno di evitare commenti inutili che l’avrebbero messa inevitabilmente in imbarazzo, vista la rilevanza del suo nuovo ruolo istituzionale».
Non è che il compagno giornalista rischia di diventare una mina vagante per la premier?
«Non è una questione di libertà di stampa, come ha detto la Meloni, ma di gestione del potere politico, in tutti gli ambiti. Compreso quello familiare e personale. Una necessità, quando si è sotto i riflettori in permanenza».
Esiste un rigurgito fascista nell’Italia di oggi?
«Il pericolo è che questi rigurgiti vengano legittimati da alcuni esponenti della maggioranza. La destra sta conducendo una legittima battaglia culturale contro quella che definisce “l’egemonia” della sinistra. Il rischio è che si finisca per dare dignità a pulsioni retrive, xenofobe e antidemocratiche che la nostra Repubblica finora è riuscita a tenere ai margini».
Lei ha espresso perplessità sull’espressione «patriota». Lei non si sente patriota? E qual è la sua patria? L’Europa, l’Italia, il Sud Tirolo?
«Io sono sudtirolese, italiana ed europea. Ho un problema con chi prende in ostaggio la parola “patriota” per piegarla al neonazionalismo. Le vere patrie includono, non escludono».
Lei ha scritto libri di grande successo sulla storia della sua famiglia e della sua terra. Cosa si sentono oggi i sudtirolesi?
«Non posso parlare a nome di tutti i sudtirolesi, ma è un territorio che lavora molto sul passato, sulle sue ferite e sulle necessarie riconciliazioni. Questa, che in tedesco si chiama Geschichtsaufarbeitung, il lavoro sulla memoria storica, è una necessità per tutti: anche per l’Italia, come dimostra la cronaca recente».
La Germania, il mondo tedesco, per anni locomotiva d’Europa, oggi appare fermo, in crisi. Scholz non è Angela Merkel. Questo è un problema anche per noi?
«Lo è, le nostre economie sono interconnesse, lo scambio commerciale complessivo nel 2022 è stato di 168 miliardi di euro. Per noi è il primo partner in assoluto. Se frena la Germania frena l’Europa, e soprattutto l’Italia».
Siamo stati un po’ ingrati con Draghi? La sua esperienza di governo si è chiusa bruscamente, lui forse sperava nel Quirinale... Che ruolo vede per lui in futuro?
«Ci dimentichiamo che alla fine Mario Draghi è stato sfiduciato da tutti i partiti del Parlamento, esclusi Pd e centristi. Dopo averlo sostenuto per risolvere i suoi problemi, la politica lo ha rigettato. Come dimostra la mancata elezione al Quirinale. Ma il suo governo ha gestito bene una fase delicatissima nella vita del Paese, dal Covid alla guerra. Il futuro di Draghi lo conosce solo Draghi».
Il 2024 sarà l’anno della pace in Ucraina? Putin è saldo o rischia?
«Temo abbia ragione Lucio Caracciolo quando scrive che la pace in Ucraina è per ora impossibile. Con potenziali conseguenze devastanti per tutti, a cominciare da noi europei. Impossibile predire la longevità politica di Putin. È stato dato per finito troppe volte».
Secondo lei c’è davvero la possibilità che Trump torni alla Casa Bianca?
«Trump insegna cosa succede alle democrazie quando alimenti divisioni, sdogani l’odio e utilizzi nella propaganda politica delle palesi menzogne. Detto questo, mancano 14 mesi: in politica sono lunghi, anche in America».
Parliamo di tv. In Rai la destra ha fatto né più né meno quel che faceva la sinistra? O ha fatto peggio?
«La Rai è irriformabile e la politica insaziabile. E leggo che Giorgia Meloni avrebbe stretto un patto con Marina Berlusconi per tutelare le aziende di famiglia. I cittadini che pagano il canone meriterebbero uno spettacolo più decoroso. E finalmente una legge sul conflitto di interessi».
Rai 3 in particolare cambia pelle. Se ne sono andati volti storici come Fazio, Berlinguer, Gramellini, Annunziata. Si rischia il crollo? Era giusto o no che ci fosse una rete apertamente di sinistra?
«Rai 3 viene istituita da una riforma del 1975, parliamo di un’era geologica fa, e oggi abbiamo di nuovo il governo che – grazie a Renzi – controlla la Rai. Comunque, molti dei volti che ha citato saranno in onda anche questa stagione: sarà il pubblico a dare il suo verdetto».
Anche di lei dicono che sia un po’ troppo di sinistra, o comunque anti-governativa. C’è del vero?
«Più che l’etichetta di destra o sinistra, di un giornalista credo vada evidenziato se fa o no tutte le domande, se si attiene ai fatti o cerca di manipolare il racconto, se fa da grancassa alla propaganda o se cerca di smontarla. Questo conta alla fine, se parliamo di giornalismo».
E Mediaset senza Berlusconi che futuro ha?
«Leggo che il figlio Pier Silvio ha saldamente le redini dell’azienda in mano. Più complicato mi sembra il discorso sul futuro di Forza Italia senza Berlusconi».
Posso chiederle come mai va al Bilderberg? Cosa succede in quelle riunioni di potenti?
«Succede che si decidono i destini del mondo, anche del suo Aldo (Lilli Gruber ride). Cospirazionismo a parte, per un giornalista è un’occasione unica di incontrare figure come Henry Kissinger, Jeff Bezos, Emmanuel Macron, Jens Stoltenberg e altri grandi protagonisti del nostro tempo».
Lei due anni fa disse al Corriere, a proposito dei No Vax, «non credo sia giusto dare voce a chi propaga fake news». Non tutti hanno fatto la sua scelta. Era giusto far parlare i No Vax, o no?
«Rivendico la mia scelta. Le ricette per affrontare un’emergenza possono essere diverse. Negare le emergenze o propagare tesi antiscientifiche è un’altra cosa».
Questo però in teoria potrebbe valere anche per altri argomenti. Ad esempio per chi nega il cambiamento climatico. A volte sono le stesse persone.
«Dire che nei vaccini c’era il grafene o i feti morti è una bestialità. Lo è anche negare il cambiamento climatico, dove però c’è un dibattito scientifico su cause, conseguenze e possibili rimedi che va approfondito».
E i difensori di Putin?
«Ci riferiamo a quei leader politici, e non solo, che fino a un giorno prima della guerra flirtavano con Putin, o a chi da sempre chiede sforzi diplomatici per far cessare il conflitto? C’è un’enorme differenza tra gli agenti più o meno palesi della Russia, e coloro che ripudiano la guerra come strumento di risoluzione delle controversie».
La tv, i talk, hanno ancora un ruolo importante?
«Direi di sì, visto che il Censis ci dice che tre italiani su quattro si informano abitualmente su tv, radio e quotidiani. Quindi riconoscono ai media tradizionali un sigillo di qualità. E la tv resta centrale».
E il giornalismo? In fondo non era scontato che nell’era digitale si sarebbe ancora passati dalla tv e dai siti dei giornali per informarsi.
«Non c’è contrapposizione tra digitale e giornalismo, al contrario: i progressi tecnologici sono una grande opportunità per un giornalismo di qualità, che così ha accesso a un bacino di utenti molto più ampio».
Anche i suoi critici le riconoscono di saper tenere la trasmissione in mano. Qual è la tecnica? Come si frenano, ad esempio, le furie di Cacciari?
«Massimo Cacciari è uno dei più grandi intellettuali del nostro Paese. Non esiste una tecnica, c’è bisogno di disciplina intellettuale ed estetica, di duro lavoro e di sangue freddo. Un giornalista e conduttore non deve deliberatamente mettere in scena un circo-spettacolo».