Corriere della Sera, 10 settembre 2023
Ancora sul golpe in Cile
L’undici settembre della mia generazione non è stato quello devastante, annuncio di un inizio secolo sotto il segno della violenza e della paura, segnato dal crollo delle Torri Gemelle. Il nostro undici settembre è stato quello del 1973, cinquanta anni fa. Era un tempo diverso da questo, un tempo del quale non è giusto avere nostalgia. Il tempo della guerra fredda, del mondo separato in blocchi, di libertà e diritti umani confiscati in Cecoslovacchia come in Argentina. Per questo l’esperienza di Salvador Allende era sembrata un’anomalia. Una forza di sinistra, guidata da un socialista, aveva conquistato la maggioranza dei voti nelle elezioni del 1970 e iniziato una esperienza di forte innovazione in un Paese allora circondato da dittature militari: Brasile, Uruguay, Bolivia, Paraguay.
Un marxista, come era Allende, andava al governo del suo Paese seguendo la via democratica. Non con una rivoluzione violenta, ma con il consenso degli elettori. E in un’area del mondo fortemente sottoposta all’influenza americana. Allende era davvero un democratico, non ha mai contemplato il ricorso all’uso della forza per garantirsi il potere e ha sempre affermato che il pluralismo e le libertà, come il rispetto delle istituzioni democratiche, erano il cuore della sua concezione politica.
Nel maggio del 1972 disse: «La lotta sostenuta per aprire la strada alla democrazia economica e conquistare le libertà sociali è il nostro più grande contributo allo sviluppo del regime democratico in questa fase della nostra storia. Realizzarlo contemporaneamente alla difesa delle libertà pubbliche e individuali e allo sviluppo del principio di legalità, è la sfida storica che tutti i cileni si trovano ad affrontare».
Il cammino di Allende fu segnato da grandi riforme, in passato impensabili per un Paese dell’America Latina. Avrà anche compiuto errori, Allende, e si sarà anche piegato al condizionamento di forze estremiste. Ma oggi questo non è il giorno dell’esame storico di un’esperienza che, comunque, non dimentichiamolo mai, aveva avuto ben due volte il conforto della maggioranza elettorale. Infatti nel 1973, dopo i primi anni di governo, la coalizione di sinistra guadagnò, rispetto alle consultazioni in cui Allende era stato eletto presidente, quasi l’8%. Solo sei mesi prima del golpe. La Dc si era unita alle destre con l’obiettivo, fallito, di conquistare i due terzi del parlamento per estromettere Allende.
«La sconfitta di Allende, dell’Unità popolare e della “strada cilena al socialismo”, era inevitabile? È stata la radicalizzazione del processo da parte dei settori dell’estrema sinistra a scatenare il colpo di Stato? La base di quell’esperimento politico avrebbe dovuto essere ampliata fino a includere la Democrazia cristiana? Le imprese statunitensi avrebbero dovuto essere indennizzate quando sono state nazionalizzate?». Così scrive, giustamente, l’ambasciatore cileno Fernando Ayala, sul sito della Treccani.
Quel giorno di settembre un golpe militare, a colpi di bombardamenti aerei sul palazzo presidenziale, cambiò un regime democraticamente eletto. Cominciò allora una sistematica e disumana caccia all’oppositore, con decine di migliaia di arrestati, seviziati, torturati, uccisi.
Ho visitato a Santiago Villa Grimaldi, luogo spaventoso di detenzione e violenza, dove centinaia di militanti della sinistra sono stati torturati con i fili elettrici applicati ai genitali o lasciati in piedi, sotto il sole, in una struttura di legno poco più larga del corpo umano.
Michelle Bachelet un giorno mi accompagnò nella stanza dove morì Salvador Allende e lì vidi il divano sul quale il Presidente liberamente eletto del Cile finì la sua vita. Furono più di tremila, le vittime del golpe e delle persecuzioni successive.
Ho incontrato Antonio Skármeta, l’autore de «Il Postino di Neruda», nell’ambasciata italiana che nei giorni terribili del golpe, per iniziativa di diplomatici coraggiosi, lasciava che gli oppositori del regime saltassero il muro di cinta e si rifugiassero in attesa di poter espatriare.
Un giorno di settembre del 1974 fu trovato il corpo di una ragazza, Lumi Videla, militante del Mir, che era stata arrestata e torturata per un mese e mezzo. La uccisero e la gettarono nel giardino della residenza diplomatica italiana per poter dire, sui media dal regime controllati, che Lumi era morta durante un’orgia in ambasciata.
Per noi, che eravamo allora ragazzi, Il Cile diventò un Paese amico. Distava migliaia di chilometri, ma quei ragazzi imprigionati li sentivamo come nostri fratelli. Un’intera generazione fece, stampando volantini e organizzando concerti degli Inti Illimani, della protesta contro quel golpe una ragione di ancoraggio permanente ai valori della libertà e dell’autodeterminazione, così utili anche in questi giorni in Ucraina.
E fu da quel golpe che nacque in Moro e Berlinguer l’idea che, nel mondo separato in blocchi, si dovesse collaborare legittimandosi per consentire poi l’alternanza in un sistema democratico pienamente compiuto. Ma anche quel tentativo, inviso a sovietici e americani, finì nel sangue.
Racconta Ariel Dorfman che il giorno in cui la democrazia tornò in Cile, a Santiago fu organizzata una grande manifestazione nello stadio nazionale. Era il 1990. Diciassette anni prima, su quelle stesse tribune, erano stati segregati migliaia di cilene e cileni che il regime golpista di Augusto Pinochet aveva arrestato. Molti di loro non sarebbero mai tornati nelle loro case. Quel pomeriggio il democristiano Patricio Aylwin, primo presidente della rinata democrazia cilena, pronunciò la frase che quel Paese martoriato voleva sentirsi dire: «Nunca más», mai più.
Prima che lui parlasse, nello stadio si era fatto un commosso silenzio e un pianista aveva eseguito le musiche di Victor Jara, il cantautore protagonista della stagione della Nueva Canción Chilena. Jara era stato arrestato il giorno del golpe e torturato per quattro giorni. Gli spaccarono le mani e gli dissero di provare così a suonare una di quelle sua canzoni. Fu ucciso durante una roulette russa, il gioco che più divertiva quegli aguzzini.
Ma ora, nel Cile libero, quello stadio si chiama col suo nome.
Si chiama Stadio Victor Jara.