Corriere della Sera, 10 settembre 2023
Terremoto a Marrakech
«Ashraf, dove sei? Rispondimi, Ashraf!». Tutto è perduto: il nipotino, la casa dietro La Place e il futuro davanti a sé. E pure la parola, la ragione, una ragione qualunque per continuare a vivere in tanta morte. Sono bastati trenta secondi di 6.8 gradi Richter, a Fatima Aboualchovak, per buttare via trent’anni di vita. Fatima stava ridendo, prima. Dopo, l’hanno incontrata come un’ombra di notte. La gellaba sporca, i capelli sfatti, una mano graffiata e il sangue rappreso. Camminava fra i muri crepati della medina, i massi d’un fondaco crollato. Intorno, la polvere s’impastava coi lamenti dei muezzin, le sirene della Mezzaluna rossa si mescolavano alle grida, alle ruspe, ai megafoni. Ma Fatima non sentiva nulla. Vagava senza una parola. Guardava senza vedere. Si sedeva, sfinita. Solo un nome che sembrava un pianto: «Ashraf, Ashraf, Ashraf…». Dove sei, Ashraf?
Non lo sa nessuno. Quand’è venuto giù il Marocco, alle undici e undici, Ashraf dormiva nella sua camera dalle volte alte. Fatima era nel cortile, sotto le stelle, e la terra s’è messa a ondulare e la casa le è crollata di fronte. Non c’è stato il tempo per niente. Il nipotino è rimasto là sotto. Aveva 4 anni e mille coccole, nella sua piccola vita. Ma se Dio decide di prendersi un bambino, dicono i vecchi chibani dai capelli bianchi, una madre può solo piangere. E zia Fatima, perdersi muta nel buio di Marrakech.
Marracrash. Ai vecchi, la grande scossa ricorda subito il 1960. La catastrofe che spazzò via Agadir. Questa non è stata così forte, meno anche della Turchia di febbraio, però ha colpito esteso (400 km di diametro) e in profondità (11 km sottoterra) e s’è sentita in Mauritania, in Andalusia e fino a Lisbona. L’hanno avvertita bene anche i vicini algerini, gli eterni nemici, tanto potente da spingerli ad aprire il loro spazio aereo ai voli umanitari, a offrire aiuto al «fraterno popolo marocchino», a dimenticare per un attimo la guerra per il Polisario e le frontiere chiuse dal ’94, le relazioni diplomatiche interrotte dal 2021. Marracash, anche: serviranno molti dirham, per aggiustare la regione di Al Haouz.
Dal mondo arrivano offerte, s’è messa in moto la diplomazia delle catastrofi e qualche proposta è più pressante di altre: l’israeliano Netanyahu non dimentica che il Marocco è partner nella Pace di Abramo col Golfo, il russo Putin che quest’Africa sopra il Sahara gl’interessa molto, il turco Erdogan che il suo neo-ottomanesimo sogna di spingersi fin qui.
I sopravvissuti
Nonna Fatima vaga disperata nei vicoli: «Ashraf, piccolo mio, Ashraf, dove sei?»
Re Mohammed VI, detto M6, s’è messo al comando dei soccorsi e probabilmente dirotterà sulle prime emergenze il miliardo di dollari stanziato per fronteggiare la peggiore siccità della storia. «Acqua, portate dell’acqua!», urlano nei vicoli stretti della kasbah, dove le autopompe faticano a entrare. L’alba di questo settembre nero è arsura, gola secca, caldo che fa male. Non c’è di che bere da anni, e adesso ce n’è meno ancora: piaga su piaga, altro che Egitto. L’ospedale è stracolmo, ci si mette in fila per donare sangue e ad Agadir lo fa anche la nazionale di calcio.
Fra le case accartocciate si scava con le mani, i soccorsi vogliono rimettere in piedi la città vetrina: sabato mattina il mercato della più famosa piazza d’Africa è già riaperto, ma i banchetti di Jemaa el Fna non s’illudono, mentre le salme vengono adagiate per terra dove c’è posto, avvolte nei tessuti colorati che di solito s’espongono per i turisti. La moschea Koutouba è subito da transennare perché dal «tetto di Marrakech», il minareto, cadono pezzi grossi. Macerie vicino al Café de France. I dieci km di mura antiche, non si sa quanto siano sane e vengono ispezionate. Anche quelli del giardino blu d’Yves Saint-Laurent, il museo all’aperto, giurano che resteranno aperti com’è da sei anni. Marrakech Express, si vuol fare presto: «C’è un evento sul lusso – dice un tour operator italiano —, mica lo facciamo saltare…». La Place dei saltimbanchi e dello street food è sempre l’inizio e la fine di questa città e lo è ancora. Del resto, venerdì sera, le prime a capire che cosa stesse per abbattersi sono state proprio le scimmiette che saltellano sempre su Jemaa. C’era Gipsy, macachina di due anni, che ben addestrata da Gannou El Ghabar faceva il suo onesto lavoro nel chiasso dei suonatori d’imzad: acchiappava il berretto del turista, gli saltava sulla spalla, si prestava alla foto, 5 euro prego. «Pochi secondi prima della scossa – racconta Gannou —, m’è scappata e s’è nascosta. Poi è schizzata fuori, sembrava impazzita. Mai fatto così! Aveva sentito qualcosa, prima che venisse giù tutto».
Deserto giallo. Il disastro grosso è altrove. Appena esci dalle vie del turismo. Nei villaggetti amazigh sperduti e isolati sotto l’Atlante, dove i berberi piangono corpi che non possono disseppellire e s’arrabbiano per i soccorsi, che non arrivano. Le case sono costruite sul dorso del monte, i muri a pisé, paglia e fango e sassi: molti paesini sono polverizzati.
Le vittime
Nella piazza le salme avvolte nei tessuti colorati che di solito si espongono per i turisti
Il sito governativo che aggiorna il bilancio – oltre duemila morti, e duemila feriti – qui neanche lo leggono: non esiste internet, i telefoni vanno malissimo, lo Stato va anche peggio. Gole chiuse, sentieri bloccati. Una famiglia d’italiani stava in un alberghetto fra le montagne, ma ha dovuto mollare la macchina e incamminarsi, con due sole bottiglie d’acqua e un po’ d’ottimismo, sulla strada d’Agadir. I racconti di chi c’era: «Ho pensato di morire in solitudine» (Gannou Najem, 80 anni, turista); «dormivo e ho sentito un boato, ho pensato fosse precipitato un aereo» (Omar Colley, calciatore, ex Sampdoria); «mi sono venute in mente le bombe» (Hafida Sahraovia, 50 anni). «Sono stati solo pochi secondi e mi sono sembrati un’eternità», racconta il vescovo di Rabat, Lopez Romero. Lui sta a 300 chilometri dall’epicentro. Ed è rimasto sveglio, nella notte più lunga di tutto il Marocco.