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 2023  settembre 10 Domenica calendario

Il potere della parola


Non esiste nessun mare tra il dire e il fare. Perché dire è fare. Dire è costruzione di sé, uscita dall’invisibilità sociale, emancipazione. Dire, prendere la parola, significa dare forma a nuovi mondi, costruire comunità, formare ed esercitare, come ci hanno insegnato da Aristotele a Gramsci e don Milani, la propria cittadinanza. Per questo l’impoverimento linguistico a cui assistiamo oggi è un sintomo pericoloso per le nostre stesse democrazie; ma potere e crisi della parola sono in fondo due facce della stessa medaglia». Daniele Francesconi, direttore scientifico del Festivalfilosofia, sintetizza così il tema di questa ventitreesima edizione, la “parola”, la cui dimensione performativa, quel “fare cose con le parole” che secondo la lezione di John L. Austin, è non solo descrizione del mondo ma azione, intreccia ogni aspetto della nostra vita, pubblica e privata. Perché tutto, in fondo, è una questione di lingua. Una lingua che, anche evangelicamente, è principio di ogni cosa, e che rivela come la parola preceda l’Uomo, lo precostituisca; che noi, più che esseri parlanti, siamo esseri parlati. È la dimensione intersoggettiva, dialettica, della parola. E anche la ragione del suo potere nella sfera pubblica, quella per cui maggiormente oggi sembra necessario rivendicare un ruolo di confrontoe mediazione. «Il dialogo è un elemento fondativo della civiltà e della politica», continua Francesconi. «Se oggi le parole perdono potere, è anche perché, come spiegherà David Le Breton nella sua lezione magistrale La scomparsa della conversazione. Un paradigma dell’epoca della comunicazione, parliamo da soli. Il linguaggio esiste per rivolgersi a un altro e a un altrove, per creare dibattito, disaccordo, anche agonismo, e di questo nella nostra società si è perso traccia. Alla ricerca continua della risonanza di noi stessi, ci parliamo addosso, il che ci ha portato a perdere di vista ildestinatario delle nostre parole. Sembra un paradosso in un periodo storico in cui prendere la parola attraverso le varie piattaforme appare, almeno per la nostra parte di mondo, facilissimo, in cui la comunicazione è così diffusa, eppure, è evidente che la parola sia sempre meno incisiva. Quasi che, immersi in questa dinamica di rispecchiamento, semplicemente rinunciamo a parlarci». Se, come sosteneva Wittgenstein, il linguaggio o è pubblico o non è linguaggio, non è cosa da cui si esce indenni. «La ricaduta sulla parola comune di questa mancanza di ascolto si riscontra nell’erosione della sfera pubblica. L’attuale crisi delle democrazie è anche la crisi delle parole del potere e della politica, una crisi che in qualche modo è crisi della responsabilità, intellettuale e civica. Cosa è infatti la politica se non un ascolto responsabile di una domanda della polis? Se si rompe questo patto, se vengono a mancare i luoghi del prendere la parola in nome di altri, anche il senso di termini come rappresentanza e pluralismo si svuota. Non a caso, stiamo assistendo a un processo trentennale di ristrutturazione delle società democratiche in senso esecutivo e leaderistico che riserva sempre meno spazio all’argomentazione pubblica e che tende a semplificare e aggirare la fatica del molteplice. Parallelamente, le nostre parole sono ridotte a hashtag, slogan, titoli. Una banalizzazione che determina una polarizzazione sempre più acuta, ma soprattutto che non genera una comunicazione, dalla scienza alla politica, all’altezza delle questioni del nostro tempo. Per temi vitali per la nostra specie come la crisi climatica, sono necessarie parole chiare più che parole semplici», conclude Francesconi. Farsi carico della complessità e recuperare il ruolo della disintermediazione (Massimiliano Panarari lo spiegherà nella sua lezione Disintermediazione. Cosa resta della sfera pubblica?) per un nuovo empowerment linguistico appare quindi un’urgenza collettiva. Per recuperare le parole che abbiamo perso, per trovarne nuove, restituire il senso a quelle che abbiamo trascurato. Un ripensamento che è quasi un atto di cura verso le parole da dire, e anche quelle da non dire, ché come scriveva Simone Weil prima della seconda guerra mondiale “Chiarire i concetti, screditare le parole congenitamente vuote, definire l’uso di altre attraverso analisi precise, per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare vite umane”.