la Repubblica, 10 settembre 2023
Jannacci e la decenza
Paolo Jannacci (intervistato per questo giornale da Arianna Finos), a Venezia per presentare un film sul padre Enzo, dice che gli piace ricordare l’Italia di suo padre perché “è un ricordo di decenza”. Questa parola, che è molto precisa, mi ha colpito profondamente e coinvolto emotivamente (ognuno ha un padre da ricordare).
Secondo la Treccani decenza significa “convenienza, decoro, pudore intesi non solo come sentimento individuale, ma più come esigenza etica collettiva che si ha l’obbligo di rispettare”. Secondo me “decenza” è esattamente quello che abbiamo perduto non tanto come individui (di decenti se ne contano ancora), quanto come collettività.
Non vorrei fare il vecchio retore (Paolo Jannacci, in ogni modo, ha vent’anni meno di me), ma lo “stile” prevalente, nell’Italia attuale, mi sembra l’indecenza. Che non vuol dire cattiveria o scelleratezza o vizio, vuol dire una drammatica perdita di misura e di eleganza. L’ostentazione di sé è il pensiero-guida. Nei social, nei talk-show, nella vita quotidiana, di “esigenze etiche collettive” che inducano alla decenza c’è davvero scarsa traccia. Rimanere discretamente un passo indietro per non sembrare invadenti, o prevaricatori, o cafoni, è uno scrupolo raro.
Il paradosso è che Enzo Jannacci, e anche il figlio, sono artisti: l’esibizione fa parte della loro natura, e niente di più indecoroso è dato, al mondo, che salire su un palco. Eppure quella generazione, qualunque lavoro facesse, perfino il giullare o il saltimbanco, fu più decente. Aveva più aplomb. Anche quando si era immersi nel lutto o nella tempesta politica o nello scandalo, l’idea era che si potesse, si dovesse, rimanere composti.