la Repubblica, 9 settembre 2023
Intervista a Paolo Jannacci
VENEZIA – Il primo “vengo anch’io” lo ha detto con le dita, «avrò avuto quattro anni, vedo e sento papà al pianoforte, mi avvicino e inizio a suonare con lui». Seduto sulla terrazza dell’Excelsior, Paolo Jannacci copre l’emozione con l’ironia. Ma è chiaro che in Enzo Jannacci – Vengo anch’io, che Giorgio Verdelli firma su suo padre, ci ha investito tanto, «lo prepariamo dal 2006», ride. Arriva alla Mostra a dieci anni dalla scomparsa dal musicista, cantante, cabarettista, un pezzo della storia culturale del nostro Paese. Il documentario – intenso, divertente, commovente – si muove sul tram di una Milano che è l’anima del medico cantautore, si apre su uno Jannacci in fuga, braccato, fuori dal sistema. E poi le sue canzoni, il corpo anarchico, gli occhiali. La folgorante ironia e la struggente poesia. Lo raccontano Dori Ghezzi e Francesco Guccini, Vasco Rossi, Paolo Conte, i momenti sul palco con Dario Fo e Giorgio Gaber, Roberto Vecchioni e Ezio Bosso.
Gli è stato accanto una vita.
Com’era il vostro rapporto?
«Ci si confrontava sempre, ci stupivamo l’uno con l’altro, il rapporto continuava a maturare, restava senpre vivo».
“I buchi neri in fondo al tram”, che il pubblico non vedeva?
«Al pubblico dava commozione, profondità e leggerezza, il resto non doveva trapelare. Il rapporto è stato difficile, straordinario, vero. Era orgoglioso di me, tanto da mettermi in imbarazzo, io l’ho contestato a suo tempo. C’era sempre. Un anno pensavo m’avrebbero bocciato e mi accompagnò dai professori. Gli avevo prospettato l’apocalisse, invece andò bene. Tornammo in un silenzio frastornato, quel pranzo con lui e la mamma è un gran ricordo. Si presentò a sorpresa sul set del filmLa febbre,per l’emozione feci troppi ciak e D’Alatri rideva, di solito con me era buona la prima».
Il ricordo più bello sul palco?
«Sanremo ’98,Quando un musicista ride.Producevo il disco ed ero direttore d’orchestra. In una situazione un po’ difficile è stato un momento nostro, di sguardi, di una complicità importante. E poi sul palco insieme nel tour Milano 3-6-2005 con tutti i suoi pezzi milanesi, 2003. Quando cantava Via del campo di Fabrizio De André era un momento di tale purezza, che ringraziavo di aver scelto la professione».
Grandi artisti raccontano cose bellissime di suo papà.
«In quella generazione non c’era gelosia, solo un pizzico di competizione. La malignità, lo sperare che l’altro fallisse, mai».
Le piace il ricordo che l’Italia ha di suo padre?
«Sì, perché è un ricordo di decenza.
Popolare, pieno, non sfilacciato. Si basa su emozioni entrate nella vita di chi lo ascoltava. L’ho capito anche quando è mancato: non mi aspettavo nulla, invece tutta la mia città, la regione, poi il resto del Paese hanno partecipato a quel momento».
L’amicizia con Giorgio Gaber.
«Erano fratelli. Si sono conosciuti da ragazzini, questo crea un legameunico. Avevano condiviso anche disavventure sul palco, ricordo il racconto di papà, il grido dal pubblico “il tempo, almeno quello”. E loro in fuga per non essere umiliati dai fischi. Cito papà: meglio un fiasco trionfale che un successo cordiale».
Dario Fo e Paolo Conte.
«Dario gli ha dato retta, era già un grande drammaturgo e intellettuale: per papà era frastornante, era un ragazzino che veniva dal nulla. Gli ha dato credito, insegnato molto. Con Paolo invece c’era una fratellanza, papà gli trasmetteva la sua energia e lui gli dava eleganza e poetica. Si chiamavano al telefono: “Pronto, c’è il poeta? Sono il genio”».
Aveva il talento di riconoscere quello degli altri.
«Vasco Rossi è il più grande nel panorama rock. Piace così tanto, perché come papà è rimasto genuino, fedele a una concezione pura del modo di porsi e vivere il pubblico. Ero piccolo ma ricordo quando papà lo chiamò alla sua trasmissione, Simpatico, cantaronoVite spericolate.Vasco non sapeva ancora di esser Vasco, ma papà lo aveva capito. È sempre stato molto Picasso, nel modo di fare e vestirsi, vedere l’arte oltre l’arte, oltre lo stereotipo dell’arte».
Il titolo del doc, “Vengo anch’io”.
«Quella canzone tirava fuori il disappunto, la disperazione di essere stati rifiutati, almeno una volta.
Quello a cui gridano “no” sono sempre io, pensava papà. Il pubblico lo comprendeva e si identificava».
Quando suo padre ha smesso di sentirsi quello a cui dicono: tu no?
«Mai. Altrimenti il gioco sarebbe finito».