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 2023  settembre 09 Sabato calendario

Caso Saman, Il padre dice che non sa chi l’abbia uccisa

Il programma di giornata prevedeva tutt’altro. Si preannunciava ricco di episodi chiave per il processo, come la prima presenza in aula del padre, Shabbar Abbas, appena estradato dal Pakistan, effettivamente avvenuta, in silenzio e a capo chino. Oppure, la decisione sulla possibilità di interrogare il fratello minore, Alì Haider, e il fidanzato, Saquib Ayub, i principali teste dell’accusa, che saranno sentiti nei prossimi giorni. Tuttavia, il procuratore di Reggio Emilia, Gaetano Calogero Paci, ha preso la parola e ha detto: «Questa mattina ho depositato nuovi atti». Sommarie informazioni testimoniali di due detenuti, che riferiscono di «confessioni» ricevute da Danish Hasnain, in merito a «ciò che ha fatto, visto e come ha partecipato alla soppressione di Saman Abbas».
Le indiscrezioni parlano di una frase semplice: «L’ho uccisa io». Senza che sia stato possibile confermarlo, va ricordato che proprio con l’accusa di aver strangolato e sotterrato la 18enne pakistana, Danish Hasnain, che ne era zio, è sotto processo dal febbraio scorso. Tuttavia, ha sempre negato questa circostanza. Inoltre, quando Paci precisa si tratti di «ciò che ha visto» e «come ha partecipato», oltre che di «quel che ha fatto», lascia supporre anche l’implicazione di terzi.
Riguardo all’importanza di questi nuovi atti, la linea del tempo toglie ogni dubbio: il 31 agosto un detenuto manifesta l’intenzione «di rendere dichiarazioni su confidenze apprese dall’imputato Danish Hasnain, in merito alla vicenda». È sempre Paci che parla. Il 5 settembre la procura lo sente. Il 6 interroga un altro carcerato. Lo scopo è «svolgere tutta una serie di accertamenti e riscontri». Ieri mattina, l’8, Pm e procuratore portano il fascicolo in cancelleria, appena in tempo per l’udienza.
Ora, attenzione a una strana coincidenza: il 31 agosto è anche il giorno in cui Shabbar è arrivato in Italia, al culmine di un processo d’estradizione lampo. Possibile che le esternazioni di Danish ai compagni di cella abbiano una qualche relazione con ciò che il fratello potrebbe dire, quando sarà interrogato il 29 settembre? Possibile che parli anche di lui, nella sua confidenza? C’è un precedente che fa riflettere. Tre giorni dopo l’arresto di Shabbar in Pakistan (15 novembre 2022), Danish disse ai carabinieri dove si trovava il corpo di Saman. La cercavano senza successo da un anno e mezzo.
In ogni caso, non è la prima volta che gli imputati di un delitto commesso in nome delle tradizioni, per l’opposizione della ragazza di Novellara ai dettami famigliari, per il rifiuto di indossare gli abiti tipici, per le sue proteste contro il divieto di studio e perché voleva sottrarsi a un matrimonio combinato in patria, si lasciano andare a frasi che aggravano la loro posizione. Cominciando da Danish, intercettato qualche giorno dopo il crimine, disse: «Abbiamo fatto un buon lavoro». Suo nipote Ikram Ijaz, in carcere, invece, ammise il proprio ruolo e quello del fratello, Noumanoulaq Noumanoulaq, nel «tenere ferma Saman», mentre Danish la strangolava. Entrambi i cugini sono accusati di essere coautori. Quanto a Shabbar, al telefono con il fratellastro Fakhar, disse: «L’ho uccisa io. L’ho fatto per la mia dignità e il mio onore». Fakhar è nella lista testimoni, ma si è trasferito in Spagna, non vuole più deporre ed è sparito.
Appurato che la giovane è morta la notte del 30 aprile 2021, il primo maggio, Shabbar e la moglie Nazia Shaheen (considerati mandanti) sono andati in Pakistan. Qui Shabbar è stato latitante per 18 mesi. La madre di Saman lo è tuttora, irreperibile per le autorità locali, nonostante il mandato d’arresto internazionale spiccato dall’Italia.
Ieri, i legali di entrambi, Enrico Della Capanna e Simone Servillo, hanno detto che il giorno in cui l’uomo è stato fermato, Nazia era «a casa con lui». Per qualche motivo, è sfuggita alla retata. Poi, hanno aggiunto: «Shabbar non sa chi ha ucciso sua figlia, non sa dove sia stata uccisa, non sa quando sia stata uccisa». Una tesi che sembrano voler sostenere insinuando il dubbio sull’attendibilità di testimoni come il figlio di entrambi che, invece, afferma il contrario.