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 2023  settembre 10 Domenica calendario

Intervista a Corrado Augias

Giornali, televisione, libri, conferenze, palchi e microfoni. Tutti insieme compongono i raggi della vita di Corrado Augias. Tutti insieme sono un unico fascio di luce dentro la galassia della “divulgazione”. E proprio lui, Augias, ha appena pubblicato un bel libro, intenso, mai noioso, dedicato a San Paolo (Paolo, edizioni Rai Libri), un santo definito “antipatico”, ma il primo a portare in giro, a divulgare il verbo di Gesù.
Perché questo libro?
I cattolici non sanno nulla di Paolo.
Come mai?
Non è San Francesco, Sant’Antonio o Santa Rita, santi popolari, resi tali da una serie di aneddoti sugli uccellini, i poveri, lo storpio, il cieco.
Non stava neanche bene…
Era epilettico, lo racconta lui: “Il signore mi ha messo una spina nella carne…”; era un intellettuale dominato dal pensiero di dover portare la parola di Gesù fuori dalla Palestina; a un certo punto del libro azzardo un paragone tra Paolo e Giacomo (minore), fratello di Gesù, e Trotzkij e Stalin.
Paragone spericolato.
Giacomo voleva limitare il nuovo giudaismo cristiano nel territorio, allo stesso modo Stalin con il comunismo; invece Trotzkij e Paolo tentarono di comunicare al mondo la novità.
Da quanto affronta queste tematiche?
Da una ventina d’anni, ho iniziato con Gesù.
Perché?
Ho un rapporto speciale con l’ebraismo, mia nonna lo era e un giorno ho sentito Giovanni XXIII affermare “Gesù è morto da ebreo”; (pausa) nei circoli ebraici era già un argomento comune, anzi si riteneva il cristianesimo un’eresia dell’ebraismo; era la prima volta che un papa affrontava una tematica del genere.
Quindi?
Ne rimasi colpito e lo covai per anni, fino a quando ho incontrato il professor Pesce, storico del Cristianesimo a Bologna, e gli ho proposto di scrivere insieme un ritratto di Gesù fuori dai Vangeli, fuori dalla fede, per capire che uomo è stato.
Risultato?
Quel libro ha venduto un milione di copie: vuol dire che il mio interesse ingenuo su Gesù era condiviso; (cambia tono) i cattolici italiani non conoscono nulla della loro religione, sanno giusto quattro favolette come i re Magi, la stella cometa, Maria Vergine e via così.
Invece?
La storia del Cristianesimo è magnifica, è una delle più grandi storie dell’umanità.
Ha mai rispettato i precetti ebraici?
No, avrei dovuto fare un atto di adesione e poi sono stato battezzato, ho frequentato un collegio cattolico e sono ateo.
Convintamente ateo?
Sì, ma il tema è delicatissimo; uno non deve immaginare l’ateo come una persona che impreca, alza i pugni al cielo e urla maledizioni. Sono un ateo tranquillo.
Il sottotitolo del libro è “un uomo che inventò il cristianesimo”. “Inventare” non stona un po’ con il tema?
Mi sono rifatto a Nietzsche: secondo lui, senza Paolo il messaggio di Gesù sarebbe rimasto confinato in Palestina.
“Inventare” sembra ridurre Paolo e il cristianesimo a Zuckerberg e Facebook..
Il titolo è chiaramente un po’ provocatorio e il Fatto lo sa bene: i titoli sono il vostro pane quotidiano (pausa). Comunque Paolo si carica una missione enorme, eppure non aveva mai visto Gesù: è stato un uomo di enorme forza visionaria, un sacerdote dell’umanità come Gandhi o Trotzkij.
A lei Trotzkij piace.
Amavo la sua idea di diffondere il comunismo nel mondo e forse lo avrebbe salvato dalla degenerazione staliniana.
Nel libro parla di Paolo folgorato sulla via di Damasco. Qual è la sua “via di Damasco”?
Non c’è; in realtà non ho mai sentito il bisogno di un protettore o di un’entità metafisica, divina, alla quale far riferimento. Anzi mi ha sempre suscitato una certa diffidenza, ma ho una spiritualità forte.
Quale?
Cercare di comportarmi bene è come un valore civico: non mi aspetto né il Paradiso né l’Inferno, anzi sono convinto che quando caccerò l’ultimo respiro finirà tutto, tornerò a essere la materia inerte che ero prima di nascere.
Resterà un’eredità.
Andrà ai miei nipoti. Forse.
L’eredità culturale?
Guardo al 900: abbiamo avuto scrittori formidabili come Moravia, Palazzeschi ed Ezio Raimondi eppure non li ricorda nessuno; l’unico di cui riscontriamo continuamente la presenza è Pasolini perché è stato mitizzato per come è morto: è la morte ad aver proiettato la luce sulla sua vita.
Mentre Moravia…
Eravamo abbastanza amici ma è morto mentre si tagliava la barba in bagno: è l’addio di un borghese.
Rispetto alla morte di Pasolini, Zigaina teorizzava una messa in scena finale.
Anche Michela Murgia si è rifatta a quella scuola lì; (pausa) uno vuole morire sul proprio letto, oppure in ospedale circondato da due o tre persone amiche, amate, mentre portare la morte in piazza è un gesto che rompe ogni schema, viola la privatezza della morte stessa (cambia tono). Posso raccontarle una barzelletta?
Siamo qui.
Il vecchio Elia, che sta tirando le cuoia, è a letto e chiama i familiari, uno a uno: “Sara ci sei?”, è quasi cieco. “Sì, nonno, ti stringo la mano”. “E Daviduccio?”. “Nonno, eccomi, sono arrivato da poco ma resto con te”. “E Rebecca?”. “Sono anche io qua…”. (Alza la voce) “Ma chi ce sta a negozio!?”.
Barzelletta alla Gigi Proietti: lei lo ha conosciuto bene…
Ho una foto con lui giovane che sembrava uno scappato da Regina Coeli (carcere romano, ndr); abbiamo portato in scena due o tre spettacoli, quelli che si organizzavano nelle cantine, con Antonio Calenda che aveva acquistato cento sedie; una sera venne Paolo Grassi (direttore del Piccolo, ndr): rimase stupito. Ci volle a Milano.
E lei?
Scrivevo i testi, poi era il ’68 ed era quasi obbligatorio discutere, confrontarsi, solo che ogni attore aggiungeva una cosuccia al suo ruolo.
Pure Proietti?
No, s’imponeva da solo; Calenda gli dava poche indicazioni su come entrare, da che parte, il tono delle battute, Gigi ascoltava, poi con garbo faceva le sue variazioni.
Negli anni avete mantenuto un rapporto?
Sì, l’ho chiamato in tv due o tre volte, specialmente in una puntata sul Belli, solo che aveva preso una strada da entertainer, mentre io ero rimasto… (silenzio, ci pensa) ora uso una parolaccia: ero rimasto un intellettuale.
Lo è.
Però è pericoloso.
Qual è l’altra parte della medaglia?
Che uno sta a casa sua e nella sua condizione di intellettuale può aprire bocca, sentenziare e coprirsi di ridicolo.
Quanti libri le arrivano?
Cinque o sei al giorno.
Come li evade?
Li apro, vedo il risvolto, spesso conosco l’autore, leggo gli apparati di corredo e in un quarto d’ora decido.
Per alcuni scrittori non sono necessari i classici.
Somari che resteranno tali tutta la vita; magari faranno soldi, scopriranno una molecola, ma rimarranno somari; (pausa) se non leggi i classici non entri in connessione con l’anima del mondo, quello che ci ha portato da laggiù a quassù.
Chi c’è nella sua valigia?
Omero, Dante, Shakespeare e Beethoven (di cui descrive alla perfezione la Terza, la Sesta e la Nona sinfonia).
Memoria formidabile.
L’alleno tutti i giorni e ne ho più oggi di quando ero giovane.
Dei peccati capitali, di quali viene accusato o si accusa?
Me li faccia ricordare.
Accidia…
Al contrario, sono frenetico.
Lussuria.
A suo tempo ho sentito gli stimoli della concupiscenza, poi grazie a Dio in tarda età si attenuano, infine si spengono e uno guadagna un sacco di tempo per fare altro.
Avarizia.
No, e non ho mai rubato.
Ira.
Tendo alla pacatezza un po’ grigia, ma ho colleghi iracondi, rossi in faccia; (riflette) e non penso a Travaglio, lui è il contrario, è Voltaire, lo spirito staffilante, il tipo del risolino che poi ti assesta la scudisciata sulle natiche.
Superbia.
Per carità, mi considero l’ultimo… (ride, si ferma); non voglio fare la caricatura, ma persone vicine mi consigliavano di farmi valere di più.
Invece…
Penso: “Se lo faccio io, possono tutti…”.
In Italia oggi chi è alla sua altezza?
(Si ferma) Non so, migliaia di persone, suppongo.
Migliaia di persone hanno la sua preparazione?
Come Travaglio, pure lei è demoniaco; (pausa) tocca un tasto delicato: sono orgoglioso di aver studiato bene e ora sto iniziando a mettere in comunicazione il cervello con la macchina. Se campo abbastanza vorrei travasare i miei neuroni a un nipote; mi rompe le scatole pensare che tutta la fatica fatta per imparare morirà con me.
Fosse possibile viaggiare nel tempo, dove andrebbe?
In Francia tra la fine del 700 e l’inizio dell’800, non proprio la Rivoluzione perché quella mi fa impressione; l’altro giorno stavo leggendo il Manzoni e ho scoperto che per Il 5 maggio ha dovuto ottenere il via libera della censura austriaca.
Cosa ha sbagliato nella sua vita?
Il mio più grande errore è stato anni fa con un libro (Disputa su Dio e dintorni): chiamai un giovane per aiutarmi a trovare citazioni e mettere ordine negli appunti; lui inserì sette righe di un libro Adelphi e siccome il suo lavoro mi sembrava ben realizzato, lo lasciai. Peccato che un signore si accorse che quelle sette righe venivano da un altro testo e scoppiò uno scandalo. Una stupidaggine grave, una macchia di pomodoro sulla camicia.
Macchia lavata?
Più o meno.
La sua ossessione?
Uno potrebbe pensare che è la morte, mentre è professionale: sto già lavorando su un altro libro in cui racconto che cosa ho fatto, da Repubblica con Scalfari al kibbutz in Israele, fino agli Stati Uniti nel 1968, quando nacquero i figli dei fiori.
Augias figlio dei fiori è quasi incredibile.
Ci sono le foto: tutti nudi, in California; comunque alla soglia dei 90 anni mi rendo conto di quante cose ho visto, soprattutto ho assistito ai cambiamenti dell’Italia, un Paese che non c’è più.
Un esempio.
Penso a quando Strehler portò in scena Vita di Galileo di Brecht e venne proibito a Roma perché città sacra: è l’Italia in cui sono cresciuto.
Nel 2007 ha dichiarato che il nazismo va trattato con parsimonia o si inflaziona il termine. Nel 2023 la parola fascismo va sempre trattata con parsimonia?
C’è modo e modo: se affermo “lei è un fascista” devo essere parsimonioso, perché alle volte è solo uno stronzo; se invece dico “questo provvedimento di legge ricorda quelli del fascismo”, lì no, se ce vo’ ce vo’…
Chiaro…
Le parole si logorano come gli oggetti; (cambia tono) quando ero ragazzo il termine “cazzo” era una parola tremenda, oggi la senti pure in televisione. Per questo sostengo che “nazismo” e “fascismo” non vadano inflazionati o perdono il loro significato sinistro, tragico.
Qual è l’accusa che le hanno rivolto maggiormente?
Di essere un radical chic; (sorride) ricorda la suddivisione di Arbasino?
Giovane promessa, solito stronzo, venerato maestro.
Con abbondanza ho attraversato la fase del solito stronzo, ora sono un venerato maestro.
Sul Fatto, Antonio Manzini ha criticato i vari Premi. Lei ne ha vinti tanti…
Li trovo carini; intanto sono una festa: uno va lì, vede gente, la gente si diverte, poi servono come pubblicità.
Ha letto Proust?
Sì, anni fa.
Con Alain Elkann e i Lanzichenecchi è stato uno degli argomenti dell’estate.
(Silenzio) Ora le dirò una cosa che mi può coprire di cacca dalla testa ai piedi.
Oddio.
(Tenta la risposta e a metà della frase inizia a ridere) L’ho letto in francese; (ancora ride) per molti anni ho vissuto in Francia. Quasi mi vergogno a dirlo…
Ha mantenuto intatti i suoi ideali da ragazzo?
Sì e no. Sì perché do una mano in maniera riservata e cerco di prendere posizione; però ho perso lo slancio: da giovane gridavo i miei ideali, oggi no.
Lei chi è?
Un italiano educato, rispettoso. Un ateo sereno. Che conta di chiudere con dignità il tempo che mi è stato dato.