il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2023
Il golpe cileno
A 50 anni dal colpo di Stato vengo chiamato a incontri e interviste, perché “io c’ero” e venni persino detenuto per tre settimane. Mi sono immerso nella pubblicistica, nei dibattiti cileni attuali su Allende e il golpe e noto che le divaricazioni sono ancora (o di nuovo?) profonde.
Da un lato si tende a dimenticare quanto la Unidad Popular, prima del gran subbuglio finale, sia riuscita a realizzare. Si fece la nazionalizzazione del rame, sottraendolo alle compagnie statunitensi, rimasta tale anche nel neoliberismo pinochetista. Nel primo anno e mezzo di governo Allende ci fu un incremento incredibile dei salari, della scolarizzazione, dell’assistenza all’infanzia, della produzione culturale, della musica. Si radicalizzò la riforma agraria, iniziata dai predecessori democristiani, eliminando il latifondo. Si sviluppò rapidamente, per iniziative dall’alto e dal basso, l’area statale o “di proprietà sociale” in coerenza con l’idea della “via democratica al socialismo”. Iconica è rimasta la distribuzione di mezzo litro di latte in polvere per ogni bambino e strategica l’intuizione di intervenire sui prezzi e sulla distribuzione del cibo, anche se non riuscì poi a evitare le difficoltà indotte dallo sciopero dei commercianti. Unidad Popular diede una dignità senza precedenti agli operai. Se nei miei primissimi giorni da giornalista, prima del colpo di Stato, ho intervistato quasi esclusivamente operai e sindacalisti di base, questo non era dovuto tanto al mio essere di Lotta Continua quanto alla centralità che effettivamente avevano. Nell’agosto 1973 però il momento di grazia di Unidad Popular era finito, il Paese era nel caos, lo sciopero dei camionisti, dei commercianti ecc. era un’insurrezione politica contro la sinistra. Anche se potevo vedere l’altra faccia della medaglia, quella della speranza, della partecipazione e consolarmi pensando che anche nell’Italia dei primi anni 70 trovarsi tra strategia della tensione e allarmi per possibili colpi di Stato non era cosa strana. La città era un pullulare di murales, di scritte, di volantini, di giornali, di assemblee di manifestazioni. Il colpo di Stato che nessuno aveva previsto, così compatto e così crudele, stroncò questa incertezza. Mi trovai anch’io “ospite” del campo di concentramento dello Stadio Nacional, a condividere paure e solidarietà. Ho constatato anche di recente quanto sia rimasta cristallizzata nel tempo la percezione che avevamo in Italia dopo il golpe, la favolistica del Pueblo Unido Jamas serà vencido. Anche di recente ho letto, persino in titoli di grandi giornali, che Allende è stato ucciso dai generali golpisti. Alle mie obiezioni – che è accertato il suicidio – mi si risponde che poco cambia. Eh no, la cosa cambia, il suicidio era premeditato. Una scelta di estrema protesta, un sacrificio. La narrazione cristallizzata immagina militari, strumento della Cia, che abbattono un governo che procede legittimato nella strada delle riforme socialiste. La realtà è stata più controversa e complessa. Il governo di Allende non aveva la maggioranza né in Parlamento né nel Paese. Il sistema presidenzialista cileno di allora gli dava un mandato di sei anni, fino al 1976, pur avendo preso solo il 36% alle elezioni (allora a turno unico). Nel 1973 la Dc e le destre, entrambe all’opposizione, si erano alleate. Non avevano i due terzi del Parlamento per far cadere il presidente, ma il Paese era a pezzi. I ceti medi erano in rivolta contro il governo, con scioperi a oltranza di commercianti, camionisti, professionisti. Gli studenti erano spaccati e anche tra gli operai c’era una parte antigovernativa (minatori). Certo, la base attiva della sinistra con il Poder Popular, fabbriche occupate, comitati popolari, terre espropriate dal basso, era forte e spaventava la borghesia, ma non era in grado di prevalere. L’inflazione era alle stelle, mancavano i rifornimenti. Poco prima del colpo di Stato di Pinochet, il generale Prats, fino ad agosto capo dell’esercito, democratico fedele alla Costituzione fatto dimettere dalle pressioni reazionarie, incontra Allende. Gli suggerisce di abbandonare provvisoriamente il Paese. Allende risponde che non se ne va, ma vuole convocare un referendum sul suo mandato presidenziale. Dice a Prats, come poi ad altri nei due giorni successivi, che è consapevole che quel referendum lo perderà, ma sarebbe una uscita onorevole e il modo per evitare una guerra civile. Questa era la situazione. Rimangono vivi i valori di giustizia sociale e i movimentismi presenti nei mille giorni tra Unidad Popular e Poder Popular, è giusto che Allende resti un personaggio di valore e di riferimento, ma è evidente che l’esperienza non aveva funzionato. In che misura è fallita per contraddizioni interne e settarismo schematico, in che misura è stata “solo” sconfitta dal boicottaggio Usa e dalla forza delle armi: questa ancora è la discussione aperta. Di ben altra natura rischia però di essere la narrazione o la discussione in Cile, dove attualmente prevale un nuovo vento di destra, che finisce per condizionare retrospettivamente anche il giudizio su Allende e Pinochet (Secondo alcuni sondaggi, l’approvazione o comprensione nei confronti del colpo di Stato del 1973 è risalita fino al 33% con quasi il 25% che non si pronuncia). Ha preso piede un cerchiobottismo che non era mai del tutto sparito, e che serve al cosiddetto centrodestra cileno come giustificazione esistenziale. Il colpo di Stato viene visto come un triste passaggio, o anche come una tragedia, di cui tutti gli attori del 1973 sono corresponsabili. Tutti. La ex “presidenta” Michelle Bachelet protesta con una brillante frase: “Certo che ci sono stati errori, ma non potete confondere errori e orrori”. Poche ore dopo il bombardamento del palazzo presidenziale, quelli che avevano accompagnato Allende si arresero ai militari, 24 di loro furono torturati e poi uccisi. Torturare e uccidere chi si arrende non si fa neanche in guerra. Si può anche dire che vi furono responsabilità di tutti, ma come si può mettere sullo stesso piano chi prende il potere, e da quel potere uccide e tortura, con chi non è riuscito a coordinare governo, movimenti e alleanze e il potere si appresta a lasciarlo? Ho letto la parte finale del libro postumo di Patricio Aylwin, ho seguito l’intervento del rettore dell’Università Carlos Pena nel commentarlo, ho letto il libro di Daniel Mansuy su Allende. Le critiche all’incapacità di Unidad Popular di risolvere la crisi nel 1973 sono fondate. Ma sembra quasi che il colpo di Stato sia stato una conseguenza inevitabile. Un terremoto fa crollare case costruite male, e allora si discute di come sono state costruite le case. Ma il colpo di Stato “di” Pinochet (sul quale è salito Pinochet) non è stato un inevitabile disastro naturale, bensì la realizzazione di una volontà umana e politica. Non era la unica possibile legittima difesa… di cosa, poi? I militari avevano già, per una legge voluta da Allende, il diritto-dovere di perquisire ovunque e sequestrare armi. Le libertà politiche e di stampa erano piene. Potevano anche non credere al referendum di Allende che lo avrebbe poi fatto cadere, potevano anche non credere alla proposta democristiana delle dimissioni dei parlamentari per poi far dimettere il presidente. In ogni caso si sarebbe tornati al voto e Unidad Popular non avrebbe vinto. Quel tipo di golpe invece è stato fatto per prendere il potere e tenerselo. Certo la Cia, certo gli Usa e la Guerra Fredda, certo la borghesia, ma i militari che hanno fatto il colpo di Stato sono stati soggetto, non strumento. L’idea che mi sono fatto, leggendo le ultime ricostruzioni, è che i generali avendo iniziato a prospettare il golpe non solo si sono autoconvinti di svolgere una missione storica, ma erano anche molto spaventati. Se si fossero fermati sarebbero stati come minimo destituiti, o anche uccisi, hanno pensato. La paura ha radicalizzato il golpe, ha radicalizzato l’odio e la crudeltà. E poi, da subito, bisognava difendersi dal rischio di pagare per i delitti commessi.
“Sento che i miei ex compagni d’armi non recupereranno mai più nella loro vita la pace dei loro spiriti, attanagliati dal rimorso per gli atti in cui si vedranno fatalmente coinvolti e per l’angustia di fronte alle ombre della vendetta, che li perseguiteranno costantemente”. Così il generale antigolpista Prats racconta i suoi sentimenti e pensieri poche ore dopo il golpe. Non è dato sapere quanti rimorsi abbiano provato, certo sapevano che alla lunga nessun tribunale minimamente terzo poteva assolverli.