il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2023
Biografia di Giuliano Amato
Esaurito il suo novantanovesimo incarico, con emolumenti da devolvere in conclamata beneficenza, il telefono di Giuliano Amato, anni 85, dormiva della grossa. Per rianimarlo, il titolare, ebbe un’idea: mettere sul carrello delle chiacchiere uno dei fatti più tragici, misteriosi e controversi della nostra storia recente, le 81 vittime civili sbriciolate nei cieli di Ustica, famiglie devastate da quarant’anni, commissioni di inchiesta senza verità, processi senza colpevoli, bugie senza vergogna, guerra di ricatti, segreti e omertà tra i militari di mezza Europa e tra gli spioni del mondo intero. Ustica, dunque, 24 giugno 1980, Mar Tirreno. Facciamo un’intervista per dire chi è stato, ma non troppo esplicita. Insinuiamo la colpevolezza di un missile francese, ma senza esagerare. Ricordiamo che a dirlo fu Cossiga. Confondersi con Craxi, scusate, è l’età. Prendersela con Macron e lo scandalo del suo silenzio, non quello degli italiani, degli americani, degli inglesi, dei belgi che volavano dalle parti del Dc-9. Non quello dell’Aeronautica militare che ha fatto sparire i tracciati radar e i testimoni. Chiedete proprio a Macron. Poi basta, s’è fatta l’ora di cena, buon appetito.
E il giorno dopo godersi il botto. Danzare sulla sinfonia delle cento telefonate a seguire. Lei dunque, presidente, conosce la verità? Chi io? Magari, mi piacerebbe. È stato un missile francese? Così mi è stato detto, ho solo riferito qualcosa di antico. Quel che mi spinge “è il bisogno intrinseco della verità”. Confermo che non fu Craxi a dirmelo. E neppure Cossiga. Forse l’ammiraglio Martini, il capo dei Servizi segreti. Oppure Santovito, l’altra barba finta. Nessuno che gli chieda come mai se così tanto gli pesa la strage, niente ne sa e malamente ricorda? A suo modo l’ha spiegato: io c’ero, non c’ero, e se c’ero, studiavo.
Sette cattedre, authority, associazioni e comitati. È un luminare d’alta giurisprudenza il nostro Giuliano Amato, nato a Torino nell’anno 1938 da famiglia piccolo borghese. Uno che si è fatto da solo moltiplicando “ambizioni forsennate” (Bruno Trentin dixit) “alle mie sole capacità” (Amato dixit). Collezionista di sette cattedre universitarie, da Roma a New York, passando per Firenze e Modena. Presidente o garante di altrettanti comitati, associazioni, authority, come l’Antitrust in piena era berlusconiana. E ovunque sventoli la bandiera a stelle e strisce, dall’Istituto Aspen, farina del sacco di Gianni De Michelis, al Centro Studi Americani: tutta roba che coniuga studi strategici e interessi militari, carriere di massima eleganza e segretissimi pasti caldi, lungo le rotte non proprio pacifiste della Nato. Compresa la presidenza della Fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema, transitato dall’eurocomunismo ortodosso, al neoliberismo compassionevole in affari con la Colombia.
Naturalmente presidente dell’università che l’ha allevato, la Normale di Pisa. E della Enciclopedia Treccani per chiara fama. Consulente di Mario Monti in Europa per l’Antitrust. E insieme consigliere dei trust bancari di Unicredit e di Deutsche Bank. Senza dimenticare i dieci anni di giudice della Corte costituzionale, scalata fin sulla cima della piramide, dove sventola il pennacchio di presidente. Basta?
Neanche per sogno. Tutti gli orti della Repubblica hanno visto fiorire il suo schivo sorriso elettorale, cinque legislature tra Camera e Senato, iniziate in sella alla sinistra socialista, quella che definiva Craxi “un cravattaro”. Proseguite in piena sottomissione al regnante Bettino e ai suoi magnifici governi anni 80, con l’inflazione a due cifre e il debito pubblico che allegramente mandava i conti dello Stato in malora.
Quattro volte ministro. Due volte presidente del Consiglio. La prima nel 1992, quando gli toccò svalutare del 20% la lira. E prelevare, in una notte di luglio, gli spiccioli del 6 per mille sui conti correnti degli italiani, per arginare lo sprofondo del debito, ignorare lo scandalo a seguire, incolpare del misfatto notturno il suo ministro del Tesoro, Giovanni Goria, che da morto non smentì.
È roba sua il trucco legislativo adottato dal governo Craxi, anno 1984, che consentì alle tv di Berlusconi di continuare a trasmettere, quando la legge ancora lo vietava. È roba sua la cordata di imprenditori – Berlusconi, Barilla e Ferrero – che sempre Craxi, anno 1985, schierò contro Carlo De Benedetti nella battaglia per annettersi il colosso alimentare Sme.
È ancora roba sua la svendita dell’Alfa Romeo alla Fiat, anno 1987, facendo deragliare, un minuto prima dell’accordo, l’offerta più vantaggiosa della Ford. Per lui, entomologo dei codici, trovare escamotage legislativi per mangiarsi le leggi è una pacchia, anzi”un orgasmo”, beato lui.
Sette anni dopo tocca a Carlo Azeglio Ciampi issarlo di nuovo alla Presidenza del Consiglio per riparare i danni di D’Alema che due anni prima aveva sgomberato Prodi da Palazzo Chigi e in piena euforia da capotavola aveva bombardato i Balcani per poi finire bombardato alle Regionali: capolavoro della sinistra fratricida, che da allora il giovane Enrico Letta studia nei manuali del masochismo politico.
Specializzato in naufragi, Giuliano sa sempre come allontanarsene. Quando il suo capo si eclissa in Tunisia, inseguito dalle guardie, lui continua a fischiettare nei palazzi del potere. È tra i pochi craxiani da combattimento che la farà franca. Bettino iracondo a Hammamet lo chiamerà “un Giuda che strisciava ai miei piedi”. Ma lui i perdenti non li calcola, li ignora.
Ama invece la scia dei vincenti, come i banchieri del Monte dei Paschi di Siena, istituto privatizzato negli anni d’oro, quelli di Giuseppe Mussari, principe della città più massonica d’Italia, di cui Amato fu amico e sponsor, con vicendevoli incantamenti. Compresi i 150mila euro che Mps versava al circolo del Tennis di Orbetello presieduto nientedimeno che da Giuliano Amato in calzoncini e maglietta, decorata da Cavaliere di Gran Croce.
Eppure nulla ha ancora risarcito la sua forsennata ambizione. Aspirava alla presidenza della Commissione europea, lo surclassò Prodi. Aspirava al Quirinale, lo hanno battuto Ciampi, Napolitano e Mattarella.
Troppe tragedie per un uomo solo. Troppi silenzi oggi da sopportare. Ma se tutta la gloria e le onorificenze vengono nel passato, allora sì, parliamo del passato: mi è venuta un’idea.