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 2023  settembre 09 Sabato calendario

Cosa mangiavano i dittatori

«Devi sapere una cosa su Pol Pot. Aveva un incredibile senso dell’umorismo. Era un clown nato», dice Yong Moeum, cuoca del dittatore cambogiano, un assassino su scala così vasta da oscurare il ricordo di Stalin, di Mao e dello stesso Hitler.
Moglie dell’ambasciatore khmer rosso a Pechino, ma anche cuoca di Pol Pot, Yong Moeum cucinava al leader rivoluzionario la zuppa di serpente (non gli piaceva, de gustibus, la zuppa di tartaruga). Erano gli anni in cui si consumò il massacro d’un quarto della popolazione cambogiana da parte dell’Angkar, l’Organizzazione, poi Partito Comunista di «Kampuchea» (così i khmer rossi avevano ribattezzato la Cambogia). A Pol Pot e agli altri «bang», gli anziani della guerriglia, zuppa di serpente (ma anche «polli, carne di maiale, riso, vino. pane appena sfornato»); ai cambogiani superstiti «ratti, cavallette, locuste, grilli, larve di mosche, formiche rosse e le loro uova, tarantole bollite o arrostite sul fuoco, scorpioni, zuppa d’uova di termiti e inoltre pipistrelli sia bolliti sia grigliati (e poiché i pipistrelli ingeriscono molta frutta i cambogiani bevevano anche il loro sangue credendo di assorbirne forza e salute)». Non di meno, decenni dopo, Yong Moeum ancora rimpiange i giorni in cui «poteva cucinare per Pol Pot, vederlo ridere, sentirlo scherzare. Sarebbe mai stato possibile non amarlo?».

Quella in Cambogia, nell’angolo cottura di «Fratello Pol Pot», come l’immane macellaio era chiamato dai suoi seguaci, è soltanto una delle tappe del viaggio di Witold Szabowski nelle cucine dei principali tiranni della seconda metà del XX secolo, da Enver Hoxha a Idi Amin Dada, da Saddam Hussein a Fídel Castro.

Come tutti noi secondo il filosofo, anche il dittatore è «ciò che mangia». Lui dispone magari d’un cuoco, e se il cuoco sgarra, servendo in tavola piatti poco appetitosi, troppo salati o scotti, non se la cava (ahilui) con un semplice licenziamento, come lo chef del ristorante sotto casa nel caso gl’impazzisca la maionese. Ma sempre come tutti noi il dittatore siede a tavola, impugna coltello e forchetta, s’annoda un tovagliolo intorno al collo e mangia. Ciascuno ha i suoi gusti, come abbiamo visto con Pol Pot, al quale piacevano, oltre alle zuppe di serpente, anche «le baguettes croccanti», che apprezzava dai tempi dei suoi studi in Francia, quando frequentava Jean-Paul Sartre e altri esistenzialisti frou-frou che si sarebbero presto convertiti al maoismo sorboniano. Ma alcuni tiranni, almeno secondo la vox populi, avevano gusti decisamente più inquietanti dei suoi.
Prendiamo Idi Amin Dada, il Signore Oscuro dell’Uganda decolonizzato, killer e e golpista, che tra tutti gli assassini all’ingrosso del XX secolo è stato di gran lunga il più chiacchierato per le particolari abitudini alimentari che gli venivano attribuite, e che lui non smentiva: il consumo di carne umana. Otonde Odera, il suo cuoco, nega d’aver mai cucinato per lui un brasato o una tartare di carne umana. Anzi, non appena sente parlare di spezzatino d’homo sapiens, Odoma – scrive Szabowski – «comincia a piangere».

Amin avrà pure accoppato decine di migliaia di nemici dando molti di loro in pasto ai coccodrilli (ecco chi mangiava carne umana in Uganda!) ma a Odoma è «impossibile immaginare che chi gli aveva triplicato lo stipendio e grazie al quale aveva avuto quattro mogli e due completi eleganti, l’uomo che gli allungava buste con i soldi per le scuole dei figli e per il quale tutti i giorni cucinava il pilaf, arrostiva il pesce e affettava verdure con le proprie mani, quello che aveva nutrito come una madre nutre il proprio bambino e del cui buonumore e benessere s’era preso cura per anni... ecco, non riusciva a credere che quell’uomo fosse capace di divorare il fegato d’altri esseri umani». Amin Dada, da parte sua, invece non negò mai. Gli piaceva passare da cannibale mentre se ne andava in giro per il palazzo del governo con un coccodrillo al guinzaglio.
Di gusti meno esotici, almeno in fatto d’alimentazione, a Saddam Hussein piaceva invece la «zuppa del ladrone», «una zuppa straordinaria che conosce soltanto la gente di Tikrit», città natale del Raìs e sede del suo clan. Immagino che la zuppa del ladrone («pesce a quadretti, aglio, prezzemolo, albicocche secche, pomodori, mandorle, una manciata d’uva sultanina») non dovesse il suo nome alle gang criminali di cui Saddam era un tipico boss ma più nobilmente ai Quaranta Ladroni delle Mille e una notte.

Quella del ladrone era una ricetta semplice. Saddam non amava le ricette stravaganti. Stravagante era che, invece di mandare il cuoco al patibolo, si facesse restituire da lui i soldi della spesa quando gli sembrava che ci fosse troppo sale nella zuppa. Più stravagante ancora era che il dittatore iracheno (tra il pranzo e la cena, per favorire la digestione) si dedicasse alle guerre in cui morivano (senza esagerazione) milioni di soldati oppure a torturare i suoi nemici cacciando loro una bottiglia nel didietro e poi prendendo a calci il medesimo. Aveva imparato queste garbate tecniche d’interrogatorio in gioventù, lavorando per i servizi segreti, prima di rovesciare con un colpo di mano i capi del partito Ba’th e prenderne il posto. Il consumatore di zuppa del ladrone non mancava mai di farsi un giro dopo pranzo nelle camere di tortura. Gli piaceva tenersi in esercizio.
A Tirana, dove regnava Enver Hoxha, un ripugnante killer stalinomaoista, i pasti erano meno sereni che in Uganda, a Baghdad e nelle giungle khmer. «Quando i pescatori di Pogradec, dove Hoxha aveva una villa, uscivano a pescare per lui», racconta il cuoco di Hoxha, che non vuole si conosca il suo nome e si fa chiamare «Signor K.», «due funzionari salivano con loro a bordo, e due imbarcazioni della Sigurimi [il Ghepeù locale] gli stavano alle costole. Nelle fattorie che rifornivano la cucina di palazzo non si poteva mungere una vacca senza la sorveglianza degli uomini della Sigurimi. Controllavano che nessuno mettesse niente di sospetto nel latte o nel formaggio destinati al tavolo di Hoxha. Quando andavo a trovare mia madre, stavo attento a non mostrarmi troppo affettuoso con i miei vecchi e con gli amici per non attirare sospetti su di loro. Una volta mi ero fermato a chiacchierare con un ex compagno di classe. Il giorno dopo lo convocarono al commissariato. E io non ero che un semplice cuoco. Chissà com’erano controllati gli altri! Ancora oggi, se qualcuno mi guarda, comincio a sudare».

Diabetico, sempre un po’ affamato, Hoxha si calmava un po’ solo quando il suo cuoco senza nome gli preparava un dolce col saccarosio. Ma per lo più il tiranno albanese era di cattivo umore, cosa che lo spingeva a tipici eccessi da autocrate e gangster. «Subito dopo la liberazione» – per dire – «fece uccidere i suoi vecchi compagni di classe, i quali ricordavano che era stato un pessimo alunno, e le ex compagne che avevano respinto le sue avance.
Eliminò migliaia di persone che non approvavano la sua politica del pugno di ferro. Costruì il sistema dei lager e delle carceri politiche. Circa duecentomila albanesi furono deportati nei campi di prigionia. Molti di loro morirono. Fortuna che io ero bravo a tirarlo su di morale. A volta sedeva a tavola che era un fascio di nervi, e poi s’alzava di buonumore, addirittura scherzando. Chissà quante vite ho salvato in questo modo!».
A Fídel Castro piaceva «il filetto di pesce con una salsa densa e cremosa a base di mango», raccontano i suoi due cuochi, Erasmo e Flores. Ma soprattutto gli piaceva sdottoreggiare, in primis di rivoluzione, naturalmente, ma in secundis di tutto l’umano scibile, dalla pastorizia al baseball, e anche di cucina. Illustrava le ricette agli amici, serviva loro barbecue carbonizzato, mai che chiudesse il becco, dormiva poco, preparava gli spaghetti nel bel mezzo della notte e sedeva a tavola quando capitava.
«I suoi famosi discorsi, che si protraevano per ore, avevano origine nella sua convinzione», spiega un amico cubano a Szabowski, «di sapere ogni cosa meglio di chiunque altro. Castro pensava che nessuno meglio di lui avrebbe saputo spiegare alla gente come costruire il comunismo, inseminare le vacche [e cucinare l’aragosta]». Intanto – raccontava tempo fa Giulio Meotti sul Foglio – «mezzo milione di cubani passavano attraverso il gulag. Paragonandola alla popolazione totale dell’isola, pari a 11 milioni d’abitanti, la dittatura castrista ha vantato il più alto tasso di carcerazione politica pro capite al mondo».