La Lettura, 10 settembre 2023
Su John Le Carré
Prima puntata
Non escono molti libri importanti oggigiorno. Prendiamo atto asciuttamente. L’eccezione è Vita privata di una spia, le lettere di John le Carré, l’Omero della Guerra fredda (il suo Achille si chiama George Smiley), l’Ariosto della Cortina di Ferro. Sono andato subito a cercare le lettere che riguardano Graham Greene, il mitologico Greene. Le Carré molto deve al campione assoluto della narrativa inglese Secondo Novecento. Greene, già famosissimo a livello mondiale, lodò con la generosità che non gli è mai mancata le prime opere di le Carré, definendole i romanzi di spionaggio più belli che avesse mai letto (non male se a dirlo è un maestro della spy story). Le Carré gli fu grato immensamente. Poi i loro rapporti si incrinarono. Casus belli fu Kim Philby, la più celebre spia di tutti i tempi, l’uomo che tradì la regina, l’Inghilterra e l’Occidente, e passò armi, bagagli e molti segreti dalla parte della Russia. Le Carré, patriota leale, si espresse duramente contro Philby e Greene insorse (aveva lavorato con il fedifrago per l’intelligence inglese e gli voleva bene). Della querelle le Carré soffrì molto. Anni dopo scrisse a Greene, assicurandogli che gratitudine e stima non erano mai venute meno nonostante il litigio. La risposta di Greene fu olimpica: per quanto aspra, non aveva mai preso sul serio la loro discussione, e aggiunse di essere profondamente dispiaciuto che le Carré si fosse preoccupato della cosa. Quando Greene morì, le Carré scrisse: «Il Generale è morto e ha vinto. Ha vinto la sua guerra, se non tutte le sue battaglie; ha lasciato opere imperiture e il ricordo che si perpetua da solo di un grandissimo uomo che aveva ogni genere di affascinanti grettezze: molte derivate dalla noia, dall’eccessiva disinvoltura con cui usava il suo talento». È un ritratto bello e veritiero. Soprattutto quando sottolinea la nonchalance di Greene, una prerogativa che si addice agli dèi.
Seconda puntata
Se dovessi nella seconda puntata su Vita privata di una spia scegliere cinque lettere per dire chi era John le Carré, il grande narratore della guerra segreta novecentesca, comincerei da questa: «Ho scritto a Stalin durante la guerra, quando ero in collegio. Gli ho promesso di fare il possibile per sostenere l’apertura di un secondo fronte, anche se non sapevo bene cosa significasse. Gli ho scritto di nuovo dicendo di quanto fosse orribile il regime scolastico e come mi picchiassero ingiustamente». Continuerei con questa di le Carré ottantenne (certe ferite non si rimarginano mai): «Non può essere giusto non aver conosciuto mia madre, ma sapere soltanto che mi ha abbandonato quando avevo cinque anni senza lasciare un recapito, & sto cominciando a esserne profondamente infastidito». Poi la risposta, un capolavoro di autoironia, all’amato (ricambiato) Philip Roth che chiedeva un consiglio per un suo romanzo: «Non so in che altro modo vorrebbe che l’aiutassi; non sono stato di alcuna utilità a Joyce per l’Ulisse, ho rovinato tutto quando Kafka aveva bisogno di me, a Nabokov sono riuscito solo a suggerire “non potrebbe darle un paio d’anni in più?”, ma non mi ha ascoltato». Il ritratto di le Carré sarebbe incompleto senza la lettera a Doug Hayward, il suo sarto (e ispiratore di personaggi) e anche sarto di Roger Moore: «Temo che i pantaloni di velluto a coste mi diano gli stessi problemi di quelli di flanella grigia: non mi lasciano spazio sufficiente per sedermi, e penso di essermi allargato perché sono un po’ stretti intorno alla vita, in particolare quando mi siedo. Potrebbe gentilmente allargare un po’ il girovita, la seduta e il diametro della coscia?». Infine, nel 2020, due mesi prima di andarsene, il messaggio all’amico Nicholas Shakespeare (non parente di): «Ma le dico: è un momento strano per pensare di morire. È la sensazione di affondare insieme a una nave pilotata da pazzi e drogati di disastri. Come ci siamo arrivati in così breve tempo?».